Una difesa libertaria del diritto alla prostituzione

Una difesa libertaria del diritto alla prostituzione

Venerdì 8 marzo abbiamo presentato, in occasione delle serate dedicate ai classici del pensiero liberale e libertario, “Le gambe della libertà”, di Wendy McElroy. Erano con noi, Giuseppe Cruciani, giornalista e conduttore radiofonico, Greta Mastroianni, dottore di ricerca in Storia delle dottrine politiche presso l’Università degli Studi Roma 3 e Aurora Pezzuto, membro del direttivo nazionale dell’Istituto Liberale. Si tratta di un libro che affronta, nel solco degli interessi e delle tematiche che l’Autrice, femminista libertaria canadese, ha fatto proprie, una serie di questioni controverse. Per “questioni controverse” ci riferiamo all’esercizio della prostituzione, oggetto di questo contributo, e all’esercizio della pornografia, nelle trattazioni che sono state compiute dall’Autrice in altre opere. E con l’aggettivo “controverse”, non è lontanamente nostra intenzione esprimere un giudizio morale sullo specifico, cosa che, del resto, non è espressa nemmeno dalla scrittrice, che affronta questi argomenti secondo angoli visuali molto lontani da una visione moralistica.  Dette tematiche, nella trattazione che emerge dalle riflessioni della McElroy, non possono essere riassunte o sintetizzate in maniera laconica, pena l’incomprensione di alcuni scenari che la scrittrice, giornalista ed attivista ha sempre avuto presenti e che ha sempre cercato di manifestare con chiarezza. I fondamenti che Wendy McElroy fa propri, come si diceva, sono quelli del libertarismo, nelle versioni che di esso sono state fornite da Murray Newton Rothbard e David Friedman; e, perciò, una posizione che connette all’individuo la piena ed assoluta proprietà di sé e del proprio corpo, non ammettendo che su di essi abbiano tutela o potestà altre istituzioni sovraindividuali nè che su di essi abbia alcun potere altri se non il singolo nella sua intangibilità. Questo significa, nella pratica, che lo Stato non può, secondo questa prospettiva, impedire il libero esercizio di attività quali la prostituzione o la pornografia in quanto esse si connettono con la libera scelta di chi le pratica. Il sottotitolo di questa raccolta di interventi è, di per sé stesso, indicativo e rivelatore : “Una difesa dei diritti delle prostitute”. Perché un’altra delle tesi “forti” dell’opera è che non si sono mai volute ascoltare, specie da parte del femminismo più tradizionale ed in particolar modo del femminismo radicale di sinistra, le voci e le volontà di buona parte di molte donne che, negli anni e nei contesti che sono stati indagati con dovizia di dettagli, hanno espresso la precisa volontà di praticare la prostituzione. Per i motivi più svariati, con le spiegazioni più varie, ma con un preciso, inequivocabile, fermo intento : esprimere in questo modo la loro autonomia attraverso una libera scelta. Il libro si pone tutta una serie di interrogativi che, davvero, risultano urticanti, quali, per esempio, il fatto che spesso un intento moralistico o un giudizio di valore aprioristico sembra condizionare l’intera legislazione in materia, inibendo o vietando a donne che vogliono prostituirsi il diritto di esercitare una libera scelta sul tipo di attività da intraprendere. O, ancora, il fatto che molti e molte sembrano volersi sostituire, con atteggiamenti paternalistici o comunque coercitivi, alla facoltà decisionale di altri in nome di definizioni morali soggiacenti perlomeno soverchianti. Quando si è fatto cenno al femminismo tradizionale, e quindi ad una visione militante, che connette la prostituzione ad un’espressione palese di patriarchiato maschile e di sfruttamento della condizione femminile per mantenere la donna stessa in una subalternità tale da impedirle il riscatto, l’Autrice si interroga sulla liceità e sulla correttezza di una posizione che, invocando la rimozione di un presunto abominio compiuto ai danni delle donne che devono prostituirsi in virtù della coercizione, di fatto impedisce ad altre di esercitare una professione che hanno scelto consapevolmente e che proseguono liberamente. La McElroy non nega che esistano moltissimi casi di brutale costrizione, ma dalla sua ricerca sociologica emerge che detta costrizione è tanto più presente nelle prostituzione cosidetta “da strada” quanto più la costrizione si fa molto più rara nella prostituzione individuale, quella esercitata lontano dai marciapiedi e gestita in proprio, secondo ritmi ed orari scelti e concordati. Il problema davanti al quale, insomma, l’Autrice vuole mettere di fronte i suoi lettori a costo di scandalizzarli è il fatto che proibendo la prostituzione, o limitandone l’esercizio o penalizzandola attraverso un codice che colpisce chi la pratica e chi ne usufruisce, di fatto si impedisce a molte persone che hanno scelto questo lavoro in libertà e lontane dalle inibizioni di esercitare un proprio diritto all’autodeterminazione. Perché il problema fondamentale che pone Wendy McElroy, e con lei buona parte del pensiero libertario, è stabilire chi detiene il potere su noi stessi, sul nostro corpo, sulle nostre manifestazioni. Nel libro, insomma, ci si interroga se sia lecito impedire a due persone un libero scambio, che non comporta aggressione o danno ai contraenti. E nel libro, soprattutto, ci si interroga se le indubbie problematiche legate all’esercizio della prostituzione non siano meglio affrontate in uno scenario in cui qualsiasi autorità si trae fuori da quelle che sono relazioni di tipo personale, laddove  dette relazioni non comportano coercizioni, aggressioni, violenze, imposizioni. Siamo di fronte, sicuramente, ad una posizione anomala nello scenario che ha affrontato queste tematiche, ma si tratta di una posizione che pone molte riflessioni da compiere e, come tale, va vista come un contributo di sicuro interesse. read more

Un po’ di chiarezza su Javier Milei

Un po’ di chiarezza su Javier Milei

Come intuibile dal titolo, il libro è un excursus sul pensiero del nuovo presidente argentino Javier Milei. L’autore, Leonardo Facco, è il fondatore del Movimento Libertario italiano e ha avuto l’occasione di interessarsi e di conoscere il presidente Milei ben prima che potesse essere presentato con questo titolo. read more

Montesquieu, la bellezza di un ingegno profondo

Montesquieu, la bellezza di un ingegno profondo

Lunedì cinque febbraio abbiamo presentato, nell’ambito delle serate dedicate ai classici del pensiero liberale e libertario, “Pensieri. Riflessioni. Massime” di Montesquieu. Erano con noi Giovanni Giorgini, professore di Storia delle dottrine politiche presso l’Università di Bologna, Andrea Bitetto, avvocato e Gregorio Fiori Carones, dottorando in Filosofia politica presso l’Università di Torino. Quando si affrontano autori come Montesquieu, ossia autentici riferimenti non solo del liberalismo classico, ma vere e proprie pietre miliari dello sviluppo del pensiero, non si può che essere colti da un senso di grata vertigine. Vertigine che coglie chi approccia la complessità, la vastità e la profondità di un ingegno tanto multiforme quanto capace di dare in fondamentali campi del sapere e del vivere civile un contributo basilare. Una vertigine che, tuttavia, diventa gratitudine per la ricchezza ed il piacere che la lettura di questo formidabile pensatore fornisce a distanza di quasi tre secoli dalle date di composizione dei suoi scritti. Fra questi, oltre al monumentale “Spirito delle Leggi”, opus magnum della produzione dell’Autore bordolese, che abbiamo presentato e recensito in un’altra serata dedicata, alle “Lettere persiane”, alle “Considerazioni sulla grandezza dei Romani”, ci sono molti altri scritti che, in omaggio all’erudizione poliedrica del suo autore, hanno trattato di tematiche anche apparentemente inusuali. Oltre a testimoniare la brillantezza di una preparazione tanto ampia e di una mente tanto acuta, la sua produzione è il segno di un intelletto sempre attento, sempre attivo, sempre originale. In quest’ottica, vanno letti i “Pensieri”, ossia quello che potremmo definire come il cumulo di appunti, tracce ed idee che sarebbero andati, spesso, a fornire la struttura per parti molto riconoscibili delle sue pubblicazioni. Questa sterminata serie di schizzi, riflessioni, massime, intuizioni, brani per elaborazioni future, osservazioni sugli argomenti più disparati si dipanò lungo l’intero arco della produzione di Montesquieu, andando dagli anni Venti del XVIII secolo alla morte, avvenuta nel 1755. Potremmo definire questo vastissimo materiale l’arsenale entro il quale ravvisare la germinazione dei suoi ragionamenti, il grande laboratorio entro il quale la formidabile multidisciplinarietà della sua mente sapeva costruire arguzie, esposizioni del suo sapere, colloqui con gli amati classici latini e greci, dialoghi con filosofi e scrittori, in un caleidoscopio pirotecnico, dove a brillare è il lume della sua intelligenza. A colpire, inoltre, è la forma, quel senso chiaro e preciso per una scrittura intelligibile, lineare, precisa, anch’essa promanazione della sua vastissima conoscenza, a contatto con i migliori modelli retorici, con i sommi esempi letterari, con i più eleganti ed efficaci scrittori della sua immensa biblioteca. Quest’opera può essere definita, dunque, uno scritto ben individuato, con tutte le caratteristiche che normalmente possiede un libro o un contributo così come noi lo conosciamo ? In parte no ed in parte sì, verrebbe da rispondere. In parte no in quanto non ci troviamo palesemente di fronte ad un’opera organicamente costruita e definita secondo modalità di pianificazione interna così come siamo abituati a conoscere (e, quindi, non ci troviamo di fronte ad introduzioni, capitoli, paragrafi etc.). E, tuttavia, in parte sì, perchè in quest’opera pulsa e si avverte fortissima la presenza di Montesquieu, cioè la forza e l’acume di un genio al lavoro. E se le mirabili riflessioni sono espresse sotto una convenzionale ripartizione alfabetica di argomenti, il loro ritmo e la loro bellezza ci impongono, spesso, la sosta, quasi a trasformare l’intuizione in un aforisma da ritenere, riportandolo in un’ideale galleria di citazioni. Il gioco dei rimandi alle opere, allora, può anche non essere il principale sforzo cui impegnarsi, pur nella sua importanza. Infatti, questo laico breviario di saggezza e di osservazione rappresenta uno dei frutti più straordinari di un’epoca straordinaria, luce in un’età di Lumi cui attingere come da un lago senza tempo, sospeso tra i secoli, in una distanza che sembra, a volte (molte più di quelle che sia lecito attendersi), scomparire, per consegnarci intatte e vive quelle che, fortunatamente, possiamo ancora gustare come perle da ammirare. Affrontare Charles Louis de Secondat, barone di La Brède e di Montesquieu significa immergersi in un’esperienza che, per chi sa apprezzare l’arguzia dei contenuti, la rilevanza dei concetti, il fluire della prosa, la finezza con cui i pensieri vengono presentati, una finezza che si è incerti a dire se sia conseguenza o causa del valore della scrittura. Ma questi brani dell’universo Montesquieu non acquistano il loro valore solo dalla loro qualità estetica, ma si pongono di fronte al lettore con la cristallina perentorietà di brevi guide sugli aspetti decisivi della vita associata. Montesquieu fu espertissimo in molte materie, ma è nel campo della filosofia politica e della elaborazione storica e giuridica che fornì i suoi contributi più rilevanti e duraturi, capaci di influenzare i suoi contemporanei e, a vario titolo, tutti coloro che vennero dopo di lui. Questi “Pensieri” ce lo restituiscono in una forma spesso embrionale, ma che non perde nulla – anzi ! – del suo immenso valore. read more

Il fantasma del fascismo

Il fantasma del fascismo

Uno sfogo disperato. Non se ne può più. E’ più di un libro. I libri sono almeno due: il primo è quello proprio del titolo, e si svolge nei primi capitoli. Poi l’altro libro parla di: cancel culture, supercasta mediatica, free speech, mondo al contrario, intelligenza artificiale (pilotata pure quella), talebani del clima, manipolazione delle masse, “dirittismo”, … e sopra tutto: mistificazioni.
Il “pericolo fascista” viene sbandierato come se fosse l’unica preoccupazione degli italiani; anzi, come amano millantare i nipoti dei “trinariciuti” (copyright Giovannino Guareschi) “la stragrande maggioranza” degli italiani. Sembra che Capezzone abbia letto con mesi d’anticipo i risultati di un sondaggio pubblicato in gennaio 2024 dal Corriere della Sera sulle cause principali della preoccupazione degli italiani, dove la preoccupazione del fascismo non compare, nemmeno in percentuale che in certi esami di laboratorio, per esempio del sangue o dell’urina, viene definita come “tracce” … Bah. Capezzone ribadisce il sottotitolo del libro: “Cari compagni, ci avete rotto… “. Insomma: c’è o non c’è “ ‘sto fascismo” ? Si registra un esercizio di fascistizzazione oggettivamente insopportabile. L’universo progressista lo usa come arma in ogni talk-show televisivo o lo affida all’intellighenzia chic (o “radical chic” come coniato da Tom Wolfe nel suo libro “Il regno della parola”, peraltro citato in questo libro).
“Da mesi gira sui social un meme strepitoso: si vede un Sigmund Freud corrucciato che, rivolgendosi a un paziente malridotto, gli sussurra: «Ma questi fascisti li vede spesso? Sono nella stanza qui con noi adesso?». Quel paziente con i nervi a pezzi siete voi “compagni”) … Tra gli esempi della patologia “fascistite”: la mano alzata dell’ufficiale che alla parata militare del 2 giugno ordina ai soldati, al passaggio davanti alle Autorità, “Attenti a … sinist ! ” (dato che le Autorità si trovano alla sinistra del corteo) viene tragicamente (come direbbe Fantozzi) scambiata da Michela Murgia (recentemente prematuramente scomparsa) come saluto fascista. Roberto Saviano ha rincarato la dose sostenendo spudoratamente che quella della Murgia fosse nientemeno che “un’interpretazione semantica”.
Ecco: all’intellighenzia manca, oltre al buon senso e al senso della misura, anche il senso del ridicolo. Una ossessione scolpita nella retina, che fa da schermo interfaccia a tutto ciò che sta intorno; non c’è talk televisivo, dibattito pubblico, convegno, … che non trovi altro argomento se non accusare di fascismo qualsiasi interlocutore indipendentemente dal contenuto del dibattito. “L’impennarsi del rischio fascismo è direttamente proporzionale all’avvicinarsi di una campagna elettorale, di qualunque ordine e grado.” Capezzone interpreta in prima persona il ruolo che raccomanda al lettore: quello del “Freedom fighter”. E’ il ruolo che viene auspicato nella seconda parte del libro. Qui si argomenta su woke, cancel culture, politically correct, … insomma quelle strampalate invenzioni che per la sinistra sarebbero condivise dalla “stragrande maggioranza degli italiani” (scandalosa contraffazione dei risultati elettorali). Si trovano alcune citazioni, ma anche riferimenti a “concetti” (NB: similitudini concettuali, anche se talvolta non condivise in toto) con libri, ad esempio, di Tom Wolfe (Il regno della parola), Luca Ricolfi (Il danno scolastico, La società signorile di massa, Manifesto del libero pensiero), Federico Rampini (Suicidio Occidentale), Roberto Vannacci (Il mondo al contrario), di 25 autori (Dialoghi sul clima); e basta anche con la tiritera del clima, dice l’autore.
Ci si chiede se la fascistizzazione e queste mistificazioni siano frutto di preconcetti, o di malafede, o di opportunismo dei divulgatori: spesso impettiti di presenzialismo, come se amassero ascoltarsi. L’autore si scaglia contro la censura del free speech: preconcetta e ideologizzata; e propone il defund censors; ecco: “togliere i fondi ai censori”, agli imbavagliatori, a chi vuole precludere una discussione libera e aperta. Chissà … magari funzionerebbe. Per convincersi o meno della proposta: conviene leggere il libro, tenendo a freno l’indignazione; e trattenendosi (?) dall’andare alla finestra, come nel film di Lumet “Quinto potere”, a sfogarsi gridando “Sono incazzato nero e tutto questo non lo accetterò più !”. read more

Il liberalismo conseguente : Gustave de Molinari

Il liberalismo conseguente : Gustave de Molinari

Lunedì 22 gennaio abbiamo presentato, in occasione delle serate dedicate ai classici del pensiero liberale e libertario, “La società del futuro” di Gustave de Molinari. Erano con noi Carlo Lottieri, professore di Filosofia del diritto presso l’Università di Verona, Nicola Iannello, giornalista e Fellow dell’Istituto Bruno Leoni e Alessandro Giuliano, traduttore del libro. L’autore, di cui abbiamo in un’altra occasione presentato le “Serate di rue Saint-Lazare” (alla cui lettura rinnoviamo l’invito, anche per la comprensione degli scritti raccolti nel volume illustrato in questa occasione), è, giova ricordarlo, un’importante figura di economista che, nella sua lunga vita, si battè durante tutto il XIX secolo e all’inizio del XX per il libero mercato, la libertà degli scambi, l’antischiavismo, l’anticolonialismo ed opponendosi ad ogni forma di protezionismo, di interventismo statale in economia e di nazionalismo. Molinari ebbe una fase iniziale della sua riflessione politico-economica in cui contesta con dovizia di dettagli ed argomentazioni serrate i monopoli dello Stato nei settori della giustizia, della sicurezza, della protezione. Questa contestazione non rimane fine a se stessa, ma si completa con una proposta alternativa rappresentata da quello che, a suo parere, può essere il gestore più efficiente dei servizi sopraindicati, ossia il libero mercato. Molinari  propose per primo, peraltro, di affidare la gestione di questi importantissimi settori della vita pubblica comune all’iniziativa privata, al libero gioco del mercato, alla concorrenza ed alle forze migliorative che ne venivano sia dalla loro sottrazione all’inefficienza pubblica, tale in quanto monopolistica, sia, va sottolineato, dalla superiorità morale data dalla libertà, che, attraverso le dinamiche imprenditoriali e di scelta, consentiva a questi servizi, entro questa nuova, rivoluzionaria cornice, di assumere un valore incomparabilmente superiore. Lo fece, come si ricordava, per primo ed è per questo che viene ritenuto – ed è stato indicato da molti, su tutti Murray Newton Rothbard – come l’antesignano dell’anarco capitalismo, cioè di quell’indirizzo di politica economica che affranca ogni servizio ed ogni ambito dal controllo o dall’ingerenza dello Stato e lo consegna al libero mercato ed ai suoi attori. A ben voler vedere, de Molinari, in queste riflessioni, va persino oltre la prospettiva liberoscambista e l’orizzonte del liberalismo classico, che ancora lasciavano moltissimi campi di intervento all’esclusivo ed indiscusso ambito dello Stato e, fra questi, sicuramente, la giustizia e la sicurezza (con questo termine si intenda la salvaguardia personale della incolumità e della sicurezza dei beni e delle proprietà dei membri della società). Molinari, insomma, oltrepassa persino le colonne d’Ercole rappresentate dalla prospettiva indiscussa dello Stato o del governo “guardiani notturni” all’interno della società e si pone esplicitamente su un piano toto coelo differente, contestando alcuni pilastri fondamentali che fino ad allora avevano retto il vivere civile associato. Questo passo è compiuto all’interno di uno degli scritti contenuti nel volume che abbiamo presentato, uno scritto del 1849 intitolato “La produzione della sicurezza”, ma è presente, inoltre, anche nelle stesse “Serate di rue Saint-Lazare”, scritte nello stesso periodo. Arrivando a teorizzare un punto di vista che potremmo, senza tema di smentita, definire come radicale, de Molinari si rivolge sicuramente verso i cantori delle prerogative assolute dello Stato, cantori che, in quegli anni e nei decenni a seguire, avrebbero ingrossato le loro fila -socialisti, comunisti, marxisti, nazionalisti, centralisti di tutti i partiti e di tutte le fedi – fino ad assumere, nel XX secolo, caratteristiche ed incarnazioni che avrebbero portato alle Guerre mondiali. Tuttavia, è oltremodo possibile rintracciare nelle speculazioni di de Molinari sopra precisate anche una polemica nemmeno troppo larvata nei confronti dei compagni di viaggio liberali classici, ossia verso coloro che meglio avrebbero dovuto comprendere il valore e l’importanza del mercato veramente libero, della concorrenza, dell’iniziativa privata. Ed infatti, la posizione radicalmente estremista in merito tenuta dall’economista belga non mancò di creare sconcerto e contrasto ai suoi sodali del gruppo del “Journal des Economistes” di Parigi, tanto che perfino il suo amico personale e compagno intellettuale di molte battaglie combattute in nome degli ideali di una società economica incentrata sul libero mercato, vale a dire Frédéric Bastiat, espresse a chiare lettere in una famosa riunione di redazione il suo completo dissenso da opinioni tanto categoriche. Di fatto, alla lettura dei contributi presentati, contributi che comprendono, tradotta per la prima volta in italiano, anche “La società del futuro”, un saggio del 1899, ciò che emerge primariamente è la limpida consapevolezza che, una volta che vengono accettati a livello pratico e teorico i benefici, la correttezza etica e la validità per gli attori coinvolti ottenuti dal libero mercato, non è possibile non essere conseguenti ed estendere questi benefici a tutte le branche del vivere associato. Quindi, la prospettiva di Gustave de Molinari, è quella di un liberale classico conseguente, quella, dunque, di un pensatore che prende sul serio (per usare un’espressione usata in altri ambiti) le proprie posizioni di partenza, traendone le inevitabili conclusioni. E se il saggio del 1899 sembra proporre, a distanza di cinquant’anni dalle visioni più radicali del 1849, un parziale ritorno ad una prospettiva liberale classica, sono comunque presenti al suo interno accenni e riprese di notevole valore a quella serie di intuizioni che lo avevano contraddistinto agli albori della sua carriera e per le quali ha rivestito un ruolo pionieristico nella scienza economica. read more

Il liberalismo, la chiave del nostro benessere

Il liberalismo, la chiave del nostro benessere

Lunedì 8 gennaio abbiamo presentato, nel contesto delle serate dedicate ai classici del pensiero liberale e libertario, il libro di Deirdre McCloskey “Il liberalismo funziona”. Erano con noi, l’Autrice, in un contributo video, Raimondo Cubeddu, Senior Fellow dell’Istituto Bruno Leoni, Alessandra Maglie, dottore di ricerca in mutamento sociale e politico presso l’Università degli Studi di Torino e Paolo Silvestri, ricercatore in Filosofia del Diritto presso l’Università di Catania. Il libro reca, come spesso avviene, un significativo sottotitolo, che recita “Come gli autentici valori liberali rendono il mondo più libero, equo e prospero per tutti”. Il che, con una modalità capovolta, sostiene esplicitamente che, laddove si sono registrate un incremento di libertà, uguaglianza e benessere per tutti, detti incrementi sono dovuti alle idee, ai valori e alle coordinate del pensiero liberale classico. E’ più che mai importante, soprattutto alla luce del pulviscolo interpretativo spesso contrastante che interessa particolarmente l’universo liberale, che vengano definiti gli ambiti, al fine di evidenziare con chiarezza quale prospettiva è stata adottata e quali strade imboccate per costruire un affresco quanto più possibile ampio e plausibile. L’Autrice, infatti, si misura niente meno che con una scommessa non da poco, che potremmo sintetizzare nel tentativo di attribuire agli ideali liberali che essa condivide i progressi, gli avanzamenti e ciò che di valido ed utile ha contraddistinto il cammino umano, almeno nei paesi che un tempo si sarebbero definiti “occidentali”. Ora, la sua prospettiva è quella per la quale è alla visione autenticamente liberale, risalente ad Adam Smith ed alla sua morale contenuta nella “Teoria dei sentimenti morali” (testo, peraltro, presentato da Lodi Liberale) che l’umanità deve i suoi incontestabili e documentabili progressi, una filosofia di vita e di pensiero che, unita al capitalismo (o, per usare il termine preferito dall’Autrice, all’ <<innovismo>>) ha indotto ciascun uomo a migliorare la propria condizione in termini e modalità sconosciuti e spettacolari ad un’analisi storica anche superficiale. Qui sta un punto che crediamo centrale nell’analisi del contributo in esame : esso si sostanzia e prende vita, ci sembra, anche dalla mancata o non adeguata considerazione che gli ideali liberali hanno significato e continuano a significare per ogni uomo o donna del nostro pianeta. E non solo in termini di benessere materiale, pur importante e non certo da disprezzare, ma in termini, principalmente etici (l’Autrice non teme di porre la questione principalmente su questo piano), laddove alcune significative conquiste che fanno parte ormai del bagaglio collettivo (si pensi alla parità delle opportunità, all’attenzione ai diritti, alla centralità dell’individuo, alla limitazione dell’ingerenza della sfera pubblica su quella privata, ma potremmo continuare …) sono state rese possibili o capaci di imporre la loro importanza grazie sia gli ideali di libertà e dignità personali coltivati e resi operanti dal liberalismo nelle società sia da quello che si può definire come la diretta conseguenza di tutto questo, ossia il “Grande Arricchimento” che tutto questo sostrato ha generato, ha portato con sè e, in definitiva, ha giustificato. Ciascuno può legittimamente interrogarsi sui limiti delle società liberali, sulle grandi problematiche che esse sollevano e sulle prospettive che esse dischiudono, ma è altrettanto indubitabile che è all’interno di un alveo di libertà, uguaglianza, progressiva limitazione delle disparità economiche e sociali, aumento delle opportunità, ricchezza più diffusa, sempre migliori condizioni di vita assicurate che ciascuno può muoversi per tutta una serie di atti che coinvolgono la sua facoltà individuale di operare sull’esistente. L’età liberale ha consentito alle singole persone di essere se stesse, di potersi esprimere, di rifiutare la coercizione, di capire il valore della responsabilità, dell’autonomia, dell’indipendenza. Deirdre McCloskey tratteggia, in questo libro come in pressoché tutta la sua opera, le lodi entusiaste ed orgogliose di un universo culturale a cui tutti dobbiamo tanto e lo fa con toni ed accenti sicuramente entusiasti. Lo fa anche, crediamo, per rispondere alla marea montante di disinteresse, indifferenza o incomprensioni che sorgono nel dibattito contemporaneo, sia esso accademico come pure giornalistico, mediatico o quotidiano. Viene in mente una famosa citazione del grande letterato argentino Jorge Luis Borges, laddove affermava che “detestiamo dovere qualcosa ai nostri contemporanei”. Qui questa idea potrebbe essere adattata dicendo che troppo spesso vediamo come si detesta dover tanto alle idee liberali, al peso che esse hanno avuto nella storia e nella formazione del nostro benessere individuale e generale come pure a ciò che esse comportano. Perché, e l’Autrice in tal senso è molto chiara, adottare queste idee, riconoscerne l’importanza e il peso, comporta da un lato l’abbandono di troppo facili o comode prospettive, dall’altro l’assunzione di una visione adulta, che faccia propria la responsabilità, la serena accettazione della diversità e di un mondo fatto di realtà, non di utopie.08 read more