Il liberalismo italiano: una corrente sui generis

Il libro del professor Raimondo Cubeddu, “La Cultura Liberale in Italia”, consiste in una raccolta di saggi dello stesso autore pubblicati durante gli anni duemila. Questa caratteristica potrebbe rallentare la lettura ai meno “addetti ai lavori” e risultare talvolta ripetitiva nell’esposizione di certi concetti e tematiche, ma il risultato finale resta quello di un’opera di forte spessore culturale che raggruppa e aggiunge alla letteratura esistente considerazioni importanti nel panorama politico-filosofico liberale italiano.

Il libro è diviso chiaramente in due parti: la prima, “il carattere del liberalismo italiano”, è dedicata all’esposizione delle peculiarità che hanno caratterizzato il liberalismo in Italia, che è finito ad assumere forme anche ben distanti, e talvolta contraddittorie, rispetto all’originale e originario liberalismo della Scuola Austriaca (quello di Böhm-Bawerk, Menger, Mises e Hayek); la seconda parte, “personaggi e protagonisti”, elenca e riassume il pensiero di una serie di personaggi storici (da Alessandro Manzoni a Massimo Baldini) che l’autore etichetta come “liberali” e ne sottolinea gli aspetti politici e filosofici in relazione a tale dottrina.

Il professor Cubeddu conduce un’analisi critica e serrata nei confronti del liberalismo italiano, colpevole di due reati gravissimi: non aver mai compreso a fondo la rivoluzione marginalista che stava sconvolgendo la teoria economica in Austria, e non aver compreso il genio rivoluzionario di Bruno Leoni. È intorno a questa analisi che si concentrerà la presente recensione.

Infatti, a partire dalle riflessioni di Benedetto Croce (e successivamente nel confronto con Einaudi), il liberalismo italiano si era caratterizzato per il dibattito tra liberismo e liberalismo, incentrato sulla possibilità di separare un “liberalismo politico” da un “liberalismo economico”. La libertà in Italia, e dai liberali italiani, non veniva concepita come qualcosa di assoluto e imprescindibile, ma era strumentale e relativa, e poteva essere talvolta ristretta a seconda dello “Zeitgeist” dalla classe politica. Questa concezione, che non è mai stata presente in alcun filosofo precedente, Austriaco e non, fu introdotta da Benedetto Croce.

Egli riteneva che il mercato fosse un’istituzione utilitarista e slegata da una dimensione etica che invece doveva essere affermata politicamente. Egli non proponeva il liberalismo come soluzione del “problema politico tramite mezzi economici” (nelle parole di Leo Strauss), ma cercava di conciliarlo da un punto di vista etico con la dottrina democratica, il socialismo e la dottrina sociale della Chiesa. Per Croce la teoria democratica e la teoria liberale dovevano entrambe incarnare la legittimazione del potere, ignorando che il liberalismo è proprio quella dottrina che tende a ridurre al minimo il campo delle scelte collettive. L’idea mandevilliana che dai “private vices” (in questo caso i property rights) si possa arrivare ai cosiddetti “publick benefits” venne sostituita dall’idea che la politica, in particolare l’intervento Statale, sia meglio attrezzata per provvedere a questi beni pubblici, poiché ispirata da ideali etici universali. Il risultato inevitabile è quindi l’antitesi del liberalismo: più politica, ovvero più scelte collettive e meno scelte individuali.

Secondo l’autore, il liberalismo italiano è caratterizzato da un forte impronta elitista, come lo era stato l’esperienza dell’Unità d’Italia. La realizzazione di diritti sociali ed economici aveva lo scopo essenzialmente di “avvicinare il popolo… inteso come entità morale da educare – all’idea liberale”.

Il liberalismo italiano sosteneva lo Stato per delegittimare i sovrani e i privilegi della Chiesa. Infatti, esso ha sempre coinciso con l’Unità. Questa caratteristica è peculiarmente Italiana perché lo Stato italiano è stato creato relativamente tardi rispetto a molti altri Stati europei, in cui l’esperienza liberale è nata in un contesto già statale e si è quindi sviluppata come rivolta da esso. Dice bene l’autore: “Il liberalismo italiano non fu quindi l’espressione politica della borghesia, ma un progetto di intellettuali, sia borghesi, sia aristocratici, sia religiosi, che mirava a far nascere contemporaneamente una borghesia e una nazione”. I pensatori italiani liberali si scontrarono quindi con tematiche completamente diverse da quelle incontrate dagli altri europei. Era lo Stato il soggetto chiave della loro riflessione economica e politica, non l’individuo.

L’Unità non fu vissuta a lungo come un momento di liberazione e di trionfo degli ideali liberali dei diritti individuali, ma si trasformò velocemente nella preoccupazione di organizzare al meglio l’apparato Statale come difensore delle libertà.

Quest’idea, sostenuta fermamente da Croce, lascerà un segno indelebile nella cultura liberale italiana: ci sarà sempre uno Stato eticamente giusto pronto a corregge qualsiasi disfunzione del mercato (quella che ai nostri economisti piace chiamare “market failure” o “fallimento del mercato”).

Le tesi di Croce erano però già state smentite dei precedenti liberali classici nel quadro del più ampio dibattito sulla “pianificazione del mercato nel regime socialista”, che vennero riprese da Einaudi. Essenzialmente la risposta è quella che qualora l’intervento Statale si dedichi all’allocazione delle risorse (vuoi per motivi etici o altro), salterà inevitabilmente il sistema dei prezzi, verranno controllati i mezzi di produzione e di distribuzione della ricchezza e, di conseguenza, i fini e le libertà degli uomini. Nelle parole di Einaudi “senza libertà economica non ci sarà libertà politica”.

Era chiaro che in un quadro culturale di questo tipo, un personaggio rivoluzionario dai caratteri libertarian come Bruno Leoni non potesse trovare spazio. Bruno Leoni è l’emblema del liberalismo italiano, con l’unico problema che gli italiani non se ne resero mai conto (ma ora stanno migliorando). Egli fu amico di Hayek, nonché presidente della Mont Pelerein Society prima della sua prematura scomparsa nel 1967. La sua opera più importante Freedom and the Law, pubblicata in inglese e tradotta in italiano solo poco più di trent’anni dopo, vuole disegnare una società in cui i rapporti tra gli individui sono fondati su transazioni, “scambi di pretese”, non regolati dal potere politico e dalla sovrabbondanza di regole che si stavano affermando rispettivamente con Keynes e Kelsen. È stato questo suo mettere in discussione la base dei rapporti tra gli individui in una società, ovvero la politica, che lo ha reso un pensatore “incompreso” in Italia e che lo ha spinto a cercare interlocutori all’estero. La convinzione che ogni “incremento delle scelte collettive si sarebbe trasformato in una limitazione e in una riduzione delle libertà individuali” era troppo estrema in un paese come l’Italia, ovvero “un ambiente culturale che, in tutte le sue articolazioni, coltivava e ricercava invece l’utopia della loro compatibilità da raggiungere tramite un’altra delle bestie nere di Leoni: il processo di produzione legislativa del diritto”.  

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