Lunedì 31 luglio abbiamo presentato, nell’ambito delle serate dedicate agli statisti che si sono ispirati o hanno avuto parte nel pensiero liberale, “Il pensiero politico di Thomas Jefferson” di Luigi Marco Bassani. Erano con noi, oltre all’Autore, professore di Storia delle dottrine politiche presso l’Università degli Studi di Milano, anche Dario Caroniti, professore di Storia delle dottrine politiche presso l’Università degli Studi di Messina e Giuseppe Martinico, professore di Diritto pubblico comparato presso la Scuola Superiore S.Anna di Pisa.
La figura, l’opera e il complesso di ciò che può essere riferito direttamente o indirettamente a Thomas Jefferson è vasto e profondo, nella cultura, nella società e nell’immaginario americani e internazionali. Quest’uomo, terzo Presidente degli Stati Uniti, Padre Fondatore della Nazione, materiale estensore della Dichiarazione di Indipendenza (uno dei documenti più decisivi per lo sviluppo in senso liberale e più autenticamente statunitense della storia), paladino della causa localistica e della sua autonomia dal potere centrale, figlio del Sud rurale e agrario di quello Stato, la Virginia, di cui fu personalità dominante, Thomas Jefferson ha incarnato e saputo dare voce – sotto certi punti di vista persino condizionato – allo spirito americano. Con tutto ciò che di straripante, geniale, contraddittorio e formidabile esso ha significato e continua a significare. Il libro di Bassani lo restituisce con estrema proprietà e con dovizia di erudizione. Lo vediamo, ad esempio, nella vasta rassegna che l’Autore dedica all’interpretazione che ogni epoca statunitense successiva diede di questa grande figura, che si stagliava all’inizio della propria storia identitaria : in essa troviamo certamente un approfondimento intorno a Jefferson, ma troviamo anche, come in una sorta di caleidoscopio rovesciato, le caratteristiche proprie di quell’epoca e di quegli interpreti che del loro Padre Fondatore leggono ciò che vogliono far emergere, ciò che intendono far rilevare. Jefferson, allora, che della pur ricchissima galleria di personaggi politici americani rappresenta colui che ha avuto la maggior attenzione in assoluto, si trasforma nei secoli successivi, anche dopo la sua morte, in colui nel quale ogni interprete legge la propria visione dell’America, nello specchio attraverso il quale la Nazione proietta se stessa e il proprio tempo. Thomas Jefferson, allora, è il grande Padre a cui rivolgere la gratitudine, la stima, il rispetto, ma anche la critica, l’avversione e gli strali che sempre raccoglie una figura paterna per far crescere i propri figli. Il libro riporta, come ideali colonne portanti per comprendere al meglio l’azione e il pensiero politico del virginiano, il suo concetto di libertà, quello di proprietà e la sua idea di autogoverno; e prima di analizzarli seppur brevemente, diremo subito che essi sono i fondamenti non solo della visione jeffersoniana, ma anche del comune sentire statunitense, o quanto meno, della parte più distintiva e meno “europea”, se con questo aggettivo intendiamo essenzialmente il centralismo statalista. Troveremo nel libro, degnamente ed efficacemente trattate, le componenti di sopra : il giusnaturalismo che condivise con la maggior parte degli esponenti della sua generazione, il repubblicanesimo unito alle forti ascendenze riferibili a John Locke, i diritti naturali come guida sicura per le idee e per l’agire, la centralità del trio “vita, libertà e proprietà”. In questa prospettiva di matrice giusnaturalistica di chiara eco lockeana, si innesta la decisiva posizione di Jefferson intorno alla proprietà, fulcro e snodo dello spirito anglosassone e statunitense, alla difesa della libertà individuale e di intrapresa, la sua visione del necessario consenso e di una maggioranza che non coartasse i diritti della minoranza ed il senso pregnante di un governo centrale limitato, nelle sue funzioni, nei suoi ambiti, nei suoi poteri. Tutto questo prepara lo scontro che infiammerà i decenni a venire, tra antifederalisti e federalisti, tra sostenitori delle istanze di un governo centralizzato, gerarchizzato, burocratico, unitario e difensori dei diritti degli Stati dell’Unione, delle loro prerogative, dell’importanza per tutti di un maggior controllo dell’esecutivo se esso risulta il più vicino possibile.
Il libro restituisce, tra gli altri meriti, l’affresco di una Unione agli albori, quasi una “nascita di una nazione”, per parafrasare il titolo di un grande regista quale Griffith, nelle sue multiformi sfaccettature, nei suoi decisivi scontri, nelle sue contrapposizioni irriducibili. Una nazione che ha saputo mostrare fin dall’inizio la sua identità, non appiattendosi in un modello o in un clichè di ascendenza europea, ma sapendo trovare, anche e soprattutto grazie a uomini come Thomas Jefferson, un suo profilo distinto, tanto forte e tanto vitale da costituire ancora, per chi volesse intendere, una lezione.