Lunedì 30 giugno abbiamo presentato, in occasione delle serate dedicate ai classici del pensiero liberale e libertario, il libro di Ludwig von Mises “La mentalità anticapitalistica”. Erano con noi Raimondo Cubeddu, Senior Fellow dell’Istituto Bruno Leoni, Bernardo Ferrero, vice direttore di Storia Libera, Luigi Valente, Social Media Manager dell’Istituto Liberale, Jolyon Hyne, cofondatore dell’Associazione Comitato Ventotene. “La mentalità anticapitalistica” è un libro del 1956 nel quale l’Autore traspone considerazioni ed intuizioni presenti in molti suoi lavori precedenti, per tematizzare, da par suo, e quindi con la lucidità e la linearità che gli sono tipiche, una serie di aspetti che afferiscono o promanano dall’ostilità verso il capitalismo e l’economia di libero mercato. Tuttavia, quest’opera ha al suo interno molto più di ciò che suggerisce il suo titolo. Infatti, esso non si dedica solo (peraltro magistralmente) a tutte quelle ostilità ideologiche, psicologiche e comportamentali che da più parti, prevalentemente in campo intellettuale, si sono dirette e continuano a dirigersi contro l’economia libera, regolata dai meccanismi di mercato e concorrenza (laddove è permessa). “La mentalità anticapitalistica” ci illustra con precisione di cosa si tratti quando si parla di economia libera, quali siano le caratteristiche sociali del capitalismo, caratteristiche che sono molto lontane, nella loro autentica sostanza, dalla cattiva ed infondata opinione che viene propalata principalmente dai nemici di ogni impostazione libera, meritocratica, non asservita al privilegio o ad una casta. Perché è proprio questo uno degli aspetti più interessanti di questo scritto, vale a dire la sottolineatura di come proprio l’economia di libero mercato sia un’economia per le masse (i consumatori), dove a comandare sono le masse (nuovamente, i consumatori) e dove i produttori sono asserviti alla sovranità di una base larghissima ed amplissima, pena il loro tracollo ed il loro fallimento come imprenditori. Questo aspetto non è mai adeguatamente messo in luce e, di conseguenza, non è mai adeguatamente compreso : è proprio l’economia di mercato ad attuare un processo fortemente egualitario, un processo che ha innalzato, dal momento della sua generale adozione (generale adozione sempre contrastata dalla prevalenza del ceto intellettuale e dalle intromissioni esterne), le condizioni generali sia dei consumatori che dei produttori che dei lavoratori e di tutti coloro che nel processo sono coinvolti a livelli di benessere impensabili, strabilianti e nemmeno lontanamente confrontabili con economie antagoniste precedenti o contemporanee (posto che la loro esistenza possa essere ritenuta possibile, visto che l’esperienza storica e teorica ha dimostrato esattamente il contrario). Quindi, come è possibile che un sistema economico che ha reso possibile a tal punto il benessere generalizzato sia tanto odiato, non solo dagli intellettuali, ma anche da larghissimi strati della società, proprio quegli intellettuali, quegli strati sociali e quelle componenti che più hanno beneficiato e continuano a beneficiare dagli effetti ben più che positivi dell’economia libera ? Naturalmente, ad una domanda tanto complessa, la risposta non può essere univoca. Sono molte le cause e sono molti i motivi che spingono moltissimi beneficiati a contestare, perfino ad odiare l’economia di mercato, auspicando un sovvertimento in forme alternative che, nella migliore delle ipotesi, hanno già mostrato la loro fallacia e, nelle peggiori, hanno palesato i loro effetti nefasti per le libertà individuali e perfino per la sopravvivenza degli stessi individui. Mises parla di risentimento, di un’ostilità profonda verso un sistema davvero rappresentativo, dove, cioè, il voto di ciascuno, la sua preferenza, premia chi è maggiormente in grado di soddisfarne i bisogni, senza la necessità di considerazioni etiche aprioristiche o condizionanti. Questo è un aspetto inaccettabile per chi ha un’altissima considerazione di sé come i facenti parte del mondo degli intellettuali. Si tratta di un vero e proprio complesso di superiorità e di una superbia che li spinge a volere che il mondo e le singole persone operino non secondo le proprie intenzioni, ritenute misere, volgari, inappropriate, ma secondo i propri comandi, i propri gusti, le proprie idee, ritenute più alte, nobili, intelligenti, eleganti. Questo libro è un condensato di saggezza ed, al tempo stesso, un breviario di sociologia applicata ai sociologi più ascoltati, ai maestri di pensiero più venerati, agli esponenti del variegato mondo della cultura e dello spettacolo, così pronti a denunciare come inaccettabile proprio quel sistema che ha consentito loro di ottenere le migliori opportunità ed i più alti stipendi. Queste poche righe non vogliono esaurire la ricchezza di uno scritto che, come detto, non si lascia ingabbiare in una semplice denuncia delle incongruenze o dei paradossi degli intellettuali. Ci auguriamo davvero che si trovi il modo per affrontarne la lettura, per capire non solo come i pregiudizi di talune categorie poggino su basi inconsistenti, per rendersi conto non solo del composito quanto ridicolo, per alcuni versi, fronte anticapitalistico, per sorridere non solo di certe considerazioni caustiche e pungenti sul comunismo di Broadway e di Hollywood (considerazioni non certo passate di moda), ma anche per capire meglio tutto quel complesso sistema che produce il nostro benessere mantenendo la nostra libertà di scelta. Ogni riflessione liberale parte da questo dato, magari per consentire che lo spazio di libera scelta individuale sia sempre mantenuto, ma non certo per sovvertire un impianto basato su di essa. read more