Gianfranco Miglio, il lascito di un grande filosofo politico

Lo scorso lunedì 15 gennaio abbiamo organizzato una conferenza dal titolo “L’eredità di Gianfranco Miglio a cento anni dalla nascita” presentando una raccolta di suoi saggi dal titolo “Scritti politici” insieme a tre docenti dell’Università degli Studi di Milano, ovvero Luigi Marco Bassani (Professore di Storia delle Dottrine Politiche), Stefano Bruno Galli (Professore di Storia delle Dottrine Politiche) e Alessandro Vitale (Professore di Analisi della Politica Estera).

Portare a termine la lettura di questa significativa antologia ci avvicina a uno studioso di levatura profondamente scientifica e dall’erudizione sconfinata, capace di spaziare lungo molteplici specializzazioni e di affrontare prospettive inusuali per il panorama culturale italiano. Così inusuali da risultare stranianti per un ambiente prevalentemente conformista e per un Paese così incline al trasformismo come il nostro. Soprattutto se coniugate a una personalità per nulla incline al compromesso o all’opportunismo, cioè proprio le tipiche caratteristiche che hanno dominato e continuano a dominare il palcoscenico intellettuale e politico italiano.

Gianfranco Miglio è stato, lungo tutto l’arco della sua parabola, un analista della politica e un uomo che non ha avuto timore di assumere posizioni scomode, lontane dai punti di riferimento dominanti. Egli ha sviluppato le sue idee lungo un arco di tempo che, nel libro, va dalla (famosa) Prolusione accademica del 1964 fino agli ultimi scritti relativi alla fine degli anni Novanta del secolo appena trascorso. La ricchezza e la vastità del percorso di Miglio, che non ha disdegnato l’impegno politico diretto, travalica sicuramente queste sue pur rilevanti tracce. Esse, tuttavia, sono in grado di fornirci il senso di una proposta sicuramente, quanto ingiustamente, dimenticata e sicuramente capace di fornirci lumi sul nostro incerto futuro istituzionale.

La definizione dei mali e delle loro cause che affliggono l’Italia, così come sono stati evidenziati da Gianfranco Miglio lungo tutto il corso coerente del suo magistero e della sua discesa nell’agone politico, presenta ancora una validità inalterata. Sarebbe perciò necessario l’esame delle sue soluzioni, del suo metodo, del senso profondo della sua riforma, che non può ridursi alle facilonerie giornalistiche o caricaturali, ma che deve tenere conto di quanto essa sia il frutto argomentato di un progetto di ampio respiro che non mira a una disgregazione, ma a una valorizzazione delle identità, nella loro insopprimibile diversità.

La posizione migliana parte da un presupposto, ossia la crisi e il sostanziale esaurimento della forma “Stato”, con tutti i suoi cascami e le sue apparenti necessità. In particolare, è dalla constatazione inoppugnabile dell’implodere dello Stato moderno, incapace di esaurire i crescenti bisogni e le sempre più complesse richieste dei cittadini, che Miglio muove per cercare forme alternative di convivenza civile. Forme che hanno fatto parte della migliore tradizione europea, e che proprio l’invasivo emergere dello Stato aveva soffocato. È il federalismo che si può condensare, sostanzialmente, nel passaggio dall’obbligo politico all’obbligo contrattuale di natura pattizia frutto dello scambio, laddove la seconda modalità è contraddistinta da una caratteristica privatistica determinante, oltre che dalla volontarietà, dalla parità e dalla reciprocità. La fine, dunque, di un modello accentrato e accentratore, incapace di venire incontro alle diversità irriducibili per produrre solo una pletora di burocrati ed esecutori. Il parassitismo, come tanti dei mali implacabilmente messi a fuoco dallo studioso in ogni ambito del tessuto italiano, è il frutto diretto di una struttura che ha mostrato la sua inadeguatezza. È la conseguenza necessaria di un centralismo che non funziona, di un unitarismo che non ha senso, di un’unità imposta dall’alto che non esiste nella realtà e che perciò si mostra inevitabilmente impossibile.

Dinnanzi a questo sfascio, la soluzione è una sola, il federalismo forte indicato da Miglio fin dall’immediato dopoguerra e susseguentemente affinato lungo successivi sgrossamenti, fino a giungere a una proposta articolata di Riforma Costituzionale. Una vera e propria rivoluzione, un federalismo direttoriale, in cui il governo è espressione diretta delle unità territoriali che formano la Federazione. Una prospettiva radicalmente opposta a una qualsiasi compromissione con ogni forma di Stato unitario o con qualsivoglia finzione rappresentata da contraddizioni in termini quali, per esempio, lo Stato regionalistico o un decentramento semplicistico di alcune funzioni.

La proposta di Miglio è quella di un federalismo forte, corroborato contestualmente dallo studio minuzioso del nostro percorso storico e delle nostre insopprimibili differenze. Leggerla e compulsarla, per valutarne, ancora una volta, la “scandalosa” attualità, è un piacere da lasciare principalmente a coloro che conoscono poco la sua opera. Ci piace ricordare, per terminare, i suoi strali contro l’Europa di Bruxelles che omogeneizza e appiattisce al posto di esaltare le identità. Ma soprattutto, ci piace sottolineare certi suoi interessantissimi accenti a favore di un’Europa delle città, dei municipi, delle realtà locali, che ci caratterizzano e ci identificano da sempre.

Se il nostro sguardo si pone sulla nostra contemporaneità, alla vigilia di un ennesimo voto per le elezioni politiche, non possiamo che essere sconcertati dallo scena che ci si pone di fronte. L’auspicio è che questo quadro possa arricchirsi soprattutto dal punto di vista delle idee, anche grazie a contributi quali quelli offerti da Gianfranco Miglio.

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