Le tipicità alimentari e le bugie del marketing

Lo scorso 2 luglio abbiamo presentato il libro di Alberto Grandi “Denominazione di origine inventata. Le bugie del marketing sui prodotti tipici italiani” insieme all’autore (Professore di Storia delle Imprese all’Università degli Studi di Parma), Roberto Brazzale (Imprenditore) e Antonio Boselli (Presidente di Confagricoltura Milano, Lodi e Monza-Brianza).

Si tratta di un libro provocatorio e irriverente, vòlto a smascherare le bugie che sostengono l’impalcatura della narrazione intorno all’origine o alla storia di alcune nostre eccellenze agroalimentari. Un libro, tuttavia, che a più riprese esalta il valore assoluto di queste tipicità enogastronomiche e che non si sogna di metterne in dubbio la qualità eccelsa e finanche il livello incomparabile a fronte dei concorrenti esteri. Ciò che viene ripetutamente e fondatamente contestato (con dati storici e oggettivi alla mano, senza infingimenti o raggiri) è l’apparato spesso mistificatorio che accompagna, giustifica e corrobora il prodotto, costituendone un aspetto determinante nella complessa e decisiva fase della presentazione e della vendita dello stesso.

Alberto Grandi ha saputo condensare in questa ricerca puntigliosa le sue competenze di economista e di storico, per giungere ad esiti inattaccabili quanto “sgraditi”. Troppo spesso, infatti, le nostre formidabili eccellenze agroalimentari, quelle stesse per le quali andiamo, con ragione, fieri nel mondo, sono sorrette da un’impalcatura di presentazioni abbellite, da un’inseparabile commistione con dati inesatti, inventati, talvolta in maniera quasi grossolana. Questo non depone a favore del valore intrinseco di queste eccezionali creazioni del nostro territorio, ma assume, piuttosto, i caratteri di quella che è stata definita “l’invenzione della tradizione”, ossia una serie di narrazioni funzionali alla delineazione di una storia del prodotto, una storia dalle caratteristiche affascinanti, con l’obiettivo implicito di ammantare l’articolo di una dignità precisa agli occhi e alle menti degli acquirenti.

Questo contributo, tuttavia, non si limita a demolire i molti orpelli che si prefiggono di accompagnare inscindibilmente alcuni dei prodotti simbolo del Made in Italy con puntiglio e rigore (caratteristica già di gran valore in una ricerca scientificamente fondata), ma avanza anche alcune importanti riflessioni sulle quali vale la pena accennare.

Innanzitutto il libro è anche una precisa ricostruzione storica dello sviluppo effettivo della cosiddetta “cucina italiana”, uno sviluppo che tiene in debito conto alcuni fattori per lo più non adeguatamente considerati da molti, quali l’apporto dell’emigrazione italiana tra 1861 e 1918, le vicende del secondo dopoguerra, con il loro alternarsi di boom economico e crisi, lo snodo rappresentato dagli anni settanta del Novecento, dove di fatto nasce la cucina italiana nella sua manifestazione compiuta, come valorizzazione del Made in Italy, delle eccellenze enogastronomiche e, soprattutto, della creazione di un loro apparato illustrativo.

Pertanto quest’opera smonta pazientemente i cardini sui quali la vulgata più diffusa ci presenta le linee indiscutibili di sviluppo di quel grande fenomeno culturale che è la cucina italiana, e lo fa con profondità irrefutabile, ai cui risultati, talora spiazzanti per chi, come tutti noi, è abituato ad ascoltare una serie di presunte verità indiscutibili. Rimandiamo senz’altro al secondo capitolo, dal titolo altamente significativo “La cucina italiana ha cinquant’anni scarsi”, che è un salutare quanto istruttivo nuovo paradigma interpretativo, che confuta i pilastri delle idee comuni fornendo un modello più ampio e, soprattutto, aderente alla realtà.

Il resto della trattazione è un viaggio lungo i nostri, giustamente famosi, orgogli enogastronomici con l’intento non tanto di sminuirne il valore, quanto di analizzarne criticamente la congerie di “storie” che li esaltano, per fornire un punto di vista lontano da stereotipi e inesattezze. È proprio il valore di questi nostri presidi che dovrebbe essere tutelato dai tentativi di giustificare artatamente origini che non sempre possono essere provate, oppure accostamenti anacronistici, o ancora racconti tanto magniloquenti quanto insensati.

La censura contenuta nel libro alla cosiddetta codifica della tradizione, a una corsa verso il certificato e la certificazione, a un talora comico assalto alla diligenza della tipicità da parte di tutta una pletora di funzionari più o meno interessati, è un argomento che dovrebbe interessare chiunque analizzi il peso dell’autorità amministrativa e politica su tutti i settori dell’operare economico. Allo stesso modo, il garbato quanto ineccepibile rilievo per il quale non si può, al contempo, credere di possedere i migliori prodotti del mondo invocando la libertà in uscita per i nostri beni e poi, bellamente, chiedere la chiusura dei beni esteri in entrata, con punte di protezionismo e di ostilità verso il libero mercato davvero biasimabili in un contesto come quello del XXI secolo, è un punto che da solo meriterebbe più di un’attenzione. Infine, il punto di vista economico adottato nel libro, con l’analisi dell’acquisto alimentare alla luce di una fenomenologia adeguata e profonda, presenta molte analogie con i risultati delle ricerche della grande Scuola Austriaca di economia, che ha saputo rivitalizzare la grande tradizione liberale dalla seconda metà dell’Ottocento ad oggi.

Questi e molti altri sono i motivi per intraprendere la stimolante lettura del libro di Alberto Grandi.

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