Nei trasporti va eliminato l’arbitrio del Principe

Lo scorso 8 febbraio abbiamo presentato il volume “L’arbitrio del Principe. Sperperi e abusi nel settore dei trasporti: che fare?” insieme a due dei coautori, ovvero Marco Ponti (Membro dell’Adivsory Board dell’Autorità di Regolazione dei Trasporti) e Francesco Ramella (Professore di Trasporti e Logistica presso l’Università degli Studi di Torino). Il testo, con la prefazione di Carlo Cottarelli, è snello ma denso di contenuti e mette a fuoco due domande fondamentali. È davvero così indispensabile l’azione dello Stato nei trasporti? Se sì, in che misura, ma soprattutto come? Domande sempre più necessarie in uno scenario di contrazione della spesa pubblica in generale visto che stiamo parlando di un settore che nel 2010 incideva sui consumi finali di ciascun italiano per circa 2.100 euro, occupava più di un milione di addetti, contava 135 mila imprese, fatturava 144 milioni di euro e assorbiva ben 32 miliardi di euro all’anno di spesa pubblica, ovvero il 2 % del PIL. Secondo gli autori, le pesanti criticità degli interventi diretti dello Stato nel settore dei trasporti sono ormai accertate, anche se troppo spesso vengono rimosse dal dibattito pubblico.

Il primo capitolo è affidato a Stefano Moroni (Professore di Etica e Diritto del Territorio presso il Politecnico di Milano) e cerca di definire il perimetro del campo d’azione statale a partire da due suoi compiti fondamentali.  Innanzitutto, lo Stato deve garantire le regole della convivenza entro cui i cittadini possono liberamente realizzare la loro concezione di vita, senza arrecare o ricevere danni da altri. Inoltre deve fornire servizi e infrastrutture che altrimenti non sarebbe possibile avere, purché necessari e rilevanti per la collettività. Moroni evoca però la necessità di porre dei paletti entro cui iscrivere l’azione statale, al fine di limitare la discrezionalità dei decisori pubblici nelle scelte e renderne più efficace ed efficiente l’azione.

L’affondo di Marco Ponti prende invece le mosse da una descrizione puntuale delle caratteristiche del settore e, con una carrellata di esempi italiani, mette in fila i falsi miti che guidano le scelte di investimento pubblico, passando in rassegna le opere più celebri dello Stivale: dal Ponte sullo stretto di Messina alla linea ferroviaria Napoli-Bari, dalla TAV al terzo valico Milano-Genova, dalla Torino-Lione al tunnel del Brennero. 

Il contributo di Francesco Ramella affronta nello specifico le false credenze che accompagnano il dibattito e le policy sul trasporto pubblico, tra cui il presunto diritto alla mobilità per tutti. Qui Ramella cita come esempio la distribuzione degli utenti dell’alta velocità ferroviaria per gruppi socio professionali, ampiamente sbilanciata verso quelli a reddito elevato. Nel caso francese – del tutto simile al nostro – i manager e i professionisti, nonostante rappresentino solo il 6% della popolazione, coprono il 46% delle utenze della principale linea ferroviaria veloce (la Parigi-Lille); al contrario impiegati e operai, il 26% della popolazione, costituiscono solo il 12% dell’utenza della linea: un esempio tipico da manuale di tasse applicate (anche) ai poveri per sussidiare i ricchi. In Italia, ad esempio, l’investimento-monstre per la TAV di almeno 32 miliardi di euro (più o meno ciò che lo Stato spende in un anno per l’intero comparto del trasporto) consente di realizzare un servizio utilizzato prevalentemente da un’utenza medio alta che abita nei principali centri urbani. 

Ma quali sono quindi le possibili soluzioni per rimediare all’inefficienza dell’intervento pubblico nel settore dei trasporti in Italia? Per gli autori innanzitutto l’istituzione di autorità indipendenti di regolazione, separando così il ruolo del regolatore da quello di proprietario e gestore, arrivando ad eliminare le condizioni di monopolio. Si dovrebbero inoltre introdurre norme che obblighino gli investimenti ad essere sottoposti preventivamente ad analisi comparative trasparenti, capaci di valutare con estrema attenzione i costi e i benefici delle azioni da compiere. Infine c’è la necessità di porre ragionevoli argini alla discrezionalità del decisore politico, il quale troppo spesso esso ritiene che, una volta eletto, possa disporre della più piena libertà sulle scelte. Occorre invece introdurre vincoli severi alle soluzioni possibili e requisiti di adeguatezza e monitorabilità, evitando così sprechi di risorse per infrastrutture non rispondenti a reali esigenze. Solo in questo modo sarà possibile, come recita il titolo del volume, eliminare “l’arbitrio del Principe”, riducendo al minimo possibile l’interferenza politica in un settore che, se liberalizzato, vedrebbe un maggior ruolo di imprenditorialità, innovazione ed efficienza.

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