I limiti dello Stato come senso profondo del liberalismo classico

Mercoledì 8 giugno scorso abbiamo presentato, nell’ambito dei classici del pensiero liberale e libertario, il libro “Idee per un tentativo di determinare i limiti dell’attività dello Stato” di Wilhelm von Humboldt. Erano con noi Riccardo Pozzo, professore di Storia della Filosofia presso l’Università di Tor Vergata, Marina Lalatta Costerbosa, professoressa di Filosofia del Diritto presso l’Università di Bologna e Paolo Luca Bernardini, professore di Storia Moderna presso l’Università dell’Insubria e Fellow al Maimonides Center for Advanced Study in Hamburg.

L’opera, composta tra 1791 e 1792, rappresenta uno dei più chiari ed articolati esempi di cosa si debba intendere quando si parla di teoria liberale classica e fu redatta dal suo Autore ancora giovanissimo, a ventiquattro anni, ad Erfurt. In essa sono contenuti molti di quelli che saranno riconosciuti come stilemi e argomenti tipici del liberalismo, partendo da quello che emerge dal titolo stesso, ossia il tentativo di limitare il potere statuale per consentire, come per un vaso comunicante, alla libertà individuale ed alla sfera di autonomia privata di ognuno di espletare al massimo le proprie possibilità. La storia di questo scritto, purtroppo, è stata una storia travagliata, in quanto, dopo i rifiuti di molti editori a causa della censura prussiana, soprattutto riguardante le sue posizioni in materia di religione e rapporti Chiesa-Stato, fu pubblicato solo molto parzialmente in poche riviste e dovette attendere ben oltre la morte del suo Autore per essere pubblicato quasi integralmente nel 1853.

Questa mancata pubblicazione, pertanto, rappresenta una grave occasione persa sia per la cultura di lingua tedesca dell’epoca che per la riflessione politica, filosofica e intorno al diritto dell’intera Europa. Configurandosi, dunque, come uno scritto riformista, lontano dagli estremismi della contemporanea Rivoluzione francese (quanto, piuttosto, vicino alle posizioni della fazione liberale moderata francese, quella che, dopo aver caratterizzato la prima fase del tentativo di uscire dall’Ancien-Regime si ritrova scalzata alla guida del movimento dalle fazioni più radicali e giacobine), questo saggio auspica principalmente una delimitazione del potere governativo, politico, statuale, individuando, piuttosto , nella libertà dei singoli la sfera intangibile che doveva sempre essere tutelata.

Non abbiamo, ovviamente, controprove di come avrebbe potuto essere accolta quest’opera se fosse stata pubblicata integralmente al tempo della sua composizione e non abbiamo, quindi, prove delle conseguenze che avrebbe potuto avere sul corso europeo degli avvenimenti politici, istituzionali e costituzionali. In un contesto toto coelo differente, quasi sessant’anni dopo quest’opera ha influenzato molti pensatori, in primis John Stuart Mill che, nel suo famoso “On Liberty” riconosce a più riprese il suo debito intellettuale verso von Humboldt. Si presenta, significativamente, come un tentativo, sia per l’allergia che il pensiero e la mentalità liberali hanno verso ogni indicazione imperativa sia per la cautela, dimostratasi, nel corso del tempo, estremamente fondata, che von Humboldt nutriva verso la possibilità di un completo successo di questo tentativo. Un tentativo che doveva passare anche e soprattutto attraverso una necessaria quanto sempre più improbabile autorizzazione del potere politico stesso.

Il “Saggio” presenta al suo interno anche altre suggestioni, tutte argomentate in una lingua elegante e chiara, sebbene non semplici sia nella comprensione che nell’isolamento concettuale. Humboldt è un sostenitore della grandezza dell’individuo e dei formidabili risultati ottenuti dagli individui riuniti spontaneamente e liberamente in società. In questa prospettiva, lo Stato deve essere inteso come uno strumento in funzione dell’individuo e della società, come qualcosa al loro servizio per consentire loro la piena esplicazione e il maggiore sviluppo possibile. Potremmo già fermarci qui per rilevare come questa fondamentale idea del liberalismo sia tanto presente nelle sue più consone articolazioni, ma come, soprattutto, quanto questo fondamento sia stato ovunque disatteso. Il XIX secolo è stato solo per alcuni Stati (non a caso quelli a capo del progresso civile, industriale e del benessere) l’epoca delle idee liberali, mentre l’intera contemporaneità, in un processo che vediamo compiersi con sempre maggiore preponderanza sotto i nostri occhi, ha rappresentato il trionfo dello statalismo, dell’inversione dell’idea alla base della costruzione anche humboldtiana. La grande battaglia che il nobile illuminato prussiano compie nei confronti dello Stato paternalistico, delle organizzazioni di massa soffocante e contrarie all’affrancamentoto individuale è una battaglia per liberare l’essere umano, il singolo essere umano dalle catene di amministratori, burocrati, funzionari, archivi, partiti, istituzioni anonime che lo disumanizzano e lo deresponsabilizzano.

Humboldt e tutto il pensiero liberale credono al valore dell’uomo, alla forza prorompente della libertà singolare, ai risultati dell’autonomia. Ed anche, all’importanza centrale della diversità di opinione, di scelta, di pensiero, sia per motivi di tolleranza che, in particolare, per garantire un contesto dove il libero esplicitarsi delle opzioni fornisca un ambito stratificato di valori molteplici. Perché la diversità e la differenza vanno rispettate, anche per la loro capacità di essere feconde per le esperienze e le posizioni di tutti. Questo rifiuto della omologazione, a più riprese insistentemente sottolineato dal filosofo berlinese, è un’altra importantissima acquisizione teorica liberale, e non verrà mai messa abbastanza in rilievo. Molte altre, poi, sarebbero le idee contenute in questa breve, ma pregnante opera. Lasciamo a coloro che ancora non avessero avuto il piacere di leggerla la grande sorpresa di ravvisare in essa una difesa di sé stessi, di quanto di più importante ciascuno di noi ha come precipuo.

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