Cesare Beccaria ed il contributo alla riforma del sistema penale europeo

Lunedì 19 aprile 2021 abbiamo presentato, in occasione del nostro centoventiseiesimo evento, il libro di Cesare Beccaria “Dei delitti e delle pene”. Erano con noi Carlo Nordio, ex magistrato, Raffaele Della Valle, avvocato, e Iuri Maria Prado, giornalista.

È stato per noi un onore particolarmente gradito aver ricordato questo prezioso libro, tanto importante per la cultura giuridica ed, ancor piu’, per l’avanzamento morale e civile delle nazioni. Cesare Beccaria, grande esponente dell’Illuminismo milanese, con quest’opera ha consegnato al mondo lucidi argomenti razionali intorno a tematiche che riguardavano, così come riguardano ora, il campo del diritto in generale e del diritto penale in particolare.

Indubitabilmente, infatti, “Dei delitti e delle pene” è universalmente conosciuto per le sue riflessioni intorno alla tortura ed alla pena di morte, riflessioni che hanno avviato una serie di riforme e che rappresentano il suo contributo più eclatante e duraturo. Queste riflessioni cercheremo di riportarle nelle loro coordinate essenziali, sia per evidenziare come esse promanino da una concezione dell’uomo ben precisa sia per fornire, di fronte alle sempre risorgenti tentazioni giustizialiste e forcaiole, un valido baluardo ed un utile antidoto, significativamente composto ben duecentocinquanta-sette anni fa. E tuttavia “Dei delitti e delle pene” non si riduce certamente alle critiche alla tortura ed alla pena di morte, ma spazia su considerazioni che si incentrano sulle condizioni del sistema di leggi in uso al suo tempo, sul diritto di punire e sul concetto di delitto oltre che sul rapporto tra delitto e pena, sul fine che deve soggiacere alla pena, sui meccanismi del giudizio come pure sula nozione stessa di giudizio, oltre che su moltissimi ambiti che ogni sincero cercatore della giustizia umana, conscio dei suoi limiti e dei suoi confini, dovrebbe porsi come oggetto di riflessione.

Beccaria entra negli scuri antri delle celle e dei luoghi di supplizio, nelle zone buie che pochissimi consideravano degni di attenzione e lì vede l’uomo. Un uomo che viene accusato di crimini, ma che non può dirsi colpevole fino a quando la colpevolezza non ne sia dimostrata al di sopra di ogni ragionevole dubbio. Prima di “illuminare” con la sua mente il complesso di fattori che hanno fatto piombare tanti uomini in condizioni tanto abiette, senza aiuto, conforto, protezione o garanzia alcuna, Beccaria “illumina” la necessità di una nuova considerazione generale intorno all’uomo, che non diventa reo in funzione di un’accusa, ma innocente fino ad una dimostrazione di colpevolezza che faccia emergere prove certe, chiare ed inoppugnabili oltre ogni contestazione. Il grande Illuminista, prima che non filosofo del diritto, è un uomo che mostra una vasta sensibilità di fronte all’umanita’, non più considerata diversamente a seconda del censo o della classe o della nascita, ma liberata nei suoi strati meno (o per nulla) tutelati verso una serie di protezioni che spettano all’uomo in quanto uomo.

Il sistema di leggi da cui parte la sua osservazione è un sistema farraginoso, vecchio, oscuro, non lineare ed in preda agli interpreti. Inoltre non è chiaro a chi non è specialista del settore. Esso è inevitabilmente il frutto, nella sua analisi, di una società il cui stato generale non si configura come giusto, consono, adeguato, rispettoso della dignità, della libertà e della natura dell’uomo. Ciò che Beccaria vede davanti a se’ è un sistema crudele, dove la detenzione, il giudizio, le procedure, gli esiti sono tutti dominati dalle irregolarità e dalla legge del potere “fredda ed atroce”. Beccaria ha saputo ascoltare i gemiti degli oppressi, i dolori dei deboli, i soprusi. Ha sentito l’indignazione per i delitti non fondati, per le condizioni della detenzione (altro punto nodale che ha saputo mettere in rilievo), per l’incertezza cui sono sottoposti i giudicati, gettati in uno spaventoso meccanismo di distruzione progressiva del loro essere.

Cesare Beccaria aveva tra le sue guide riconosciute il grande filosofo liberale Montesquieu, che soprattutto ne “Lo spirito delle leggi” ha fornito il sentiero concettuale entro il quale muoversi. Un sentiero che individua nella razionalità la grande caratteristica di tutti gli uomini, nessuno escluso, e che si configura, quindi, come lo strumento con cui riscattare simili non tutelati. 

“Dei delitti e delle pene” presenta una profondità ed un’articolazione di contenuti che non possono essere ristretti in una sintesi come questa, ma ci sia permesso riportare tre punti di che, fra i moltissimi altri, possono davvero fare da lezione anche alla nostra età, ancora incapace di averne compreso ed applicato il senso pieno.

Il primo riguarda la tortura, che fino a Beccaria, ed in diverse forme ancora dopo di lui, era uno strumento con il quale costringere alla confessione o alla rivelazione di particolari ritenuti importanti per l’autorità; ebbene, Beccaria elabora un ragionamento tanto limpido quanto inoppugnabile : se il delitto è certo, allora non servono che leggi stabili per trovare la giusta pena, mentre se è incerto, allora non si può tormentare colui che fino a che i suoi delitti non sono provati per vie giuste resta sempre un innocente.

Il secondo riguarda la pena di morte, la cui tripla confutazione deve tener conto di tutta una serie di premesse che si appuntano nuovamente su una precisa concezione di uomo, di società, di diritto (vòlto alla prevenzione), di moderatezza e di equilibrio lontani dalla violenza legale. Ebbene, lasciamo ai nostri lettori il piacere di scoprire i primi due argomenti contro la pena di morte espressi dal nostro Autore e concentriamoci sul terzo : se l’autorità commina la pena di morte, di fatto incorre in una contraddizione, visto che le sue leggi da un lato proibiscono l’uccisione e dall’altro la ammettono in forma (si passi il termine) “legale”.

Il terzo punto riguarda la sezione che affronta l’interpretazione delle leggi : troppo spesso sentiamo affermare che il giudice deve sapientemente interpretare le leggi e troppo spesso sentiamo affermare che deve manifestare un sicuro intuito nella comprensione del loro “spirito”, componente decisiva cui appellarsi. Beccaria afferma invece che il giudice non deve e non può interpretare le leggi. Se le leggi sono chiare e e scritte, se il corpo del diritto è certo e inoppugnabile, non si pone la necessità delle interpretazioni. Le interpretazioni sorgono laddove le leggi non sono chiare, dove sono numerose ed autocontraddittorie, dove non tutelano l’uomo e non ne garantiscono il proprio ambito. La giustizia non alberga, afferma Beccaria, nelle aule dove le leggi si interpretano. Facilmente sembrerebbero potersi trovare, infatti, altre aule dove si affermano altre interpretazioni.

Ancora una volta la lettura dei classici ci ammaestra (in questo caso sarebbe opportuno dire che ci illumina) sul presente, non per trasporli pedissequamente, mancando così di riguardo al contesto che li ha prodotti, ma come un faro sempre acceso sulla strada della contemporaneità.

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