Di alcune imperfezioni di magistrati italiani

Nella nostra 158sima serata abbiamo presentato il libro di Stefano Zurlo “Il libro nero della magistratura italiana peccati inconfessati delle toghe italiane nelle sentenze della Sezione disciplinare del CSM” insieme all’autore (Giornalista), Domenico Chiaro (Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Lodi) e Giorgio Bottani (Avvocato ed Ex Presidente dell’Ordine degli Avvocati di Lodi).
La mancanza di una tesi prospettata o argomentata fa del testo una elencazione narrata di casi, spesso estremi, disturbanti e sempre comunque espressione di miseria umana, riferiti a magistrati in servizio. Lo scopo, che si indovina nella narrazione minima di ogni episodio e di ogni storia, è quello di porre in luce, attraverso la storia di singoli, il filo nascosto, e rimosso dalla attenzione pubblica, della anomalia genetica del rapporto tra la struttura di controllo della magistratura, il senso della funzione di ogni singolo magistrato e l’impatto che l’azione di ciascuno di essi finisce con l’avere sulla credibilità diffusa di un potere essenziale alla costruzione sociale.
L’interesse del libro risiede nella peculiarità di togliere dalla “inconfessabilità” storie che espongono le debolezze di singoli magistrati, e la singolarità del sistema di valutazione di esse, secondo una giurisprudenza disciplinare spesso incomprensibile e tortuosa per i più, ma sempre fortemente caratterizzata dalla propensione a diluire le anomalie nell’esigenza di protezione della immagine della magistratura come funzione complessiva.
Lo sviluppo della propensione alla curiosità e allo sguardo critico su un mondo opaco, e per lo più ignorato, costituisce lo stimolo di partenza offerto a ciascuno per cercare una visione disincantata, e non suppositiva, su uno dei cardini della democrazia occidentale.
L’esercizio della libertà non è, banalmente, la disponibilità intera della propria volontà, intesa come corrispondenza del proprio agire con il proprio volere incondizionato, ma piuttosto la libera scelta di agire secondo regole socialmente condivise. Nella costruzione delle condizioni di esercizio di questa libertà, condivisa in un ambito plurisoggettivo, sono comprese le istituzioni che devono garantire tale libertà. Tra di esse una delle più importanti è quelle della magistratura. Regole e forme della giurisdizione sono la cornice di controllo della validità e pertinenza delle singole azioni, e come tali impongono che di esse sia fatto un uso trasparente, assolutamente leggibile e comprensibile (oltre che verificabile e corretto). La nostra realtà sociale, al contrario, è caratterizzata da una sorta di liturgismo misterico delle forme simboliche di garanzia della libertà individuale socialmente connotata, che fa della imperscrutabilità un feticcio irragionevole di serietà. Tra queste liturgie opache della costruzione sociale, quella della organizzazione interna della magistratura, attraverso l’organo di autogoverno del CSM, è forse una delle più inscalfibili e refrattarie alla trasparenza dei propri riti. Per decenni la invisibilità dei metodi e delle regole di costruzione della giurisdizione, intesa banalmente come allocazione dei soggetti cui essa è affidata e il loro controllo, ha costituito un principio inscalfibile di sottrazione all’accessibilità dei singoli, accettato e subito come una necessità a garanzia dell’autodeterminazione della magistratura.
La incursione eccentrica di Zurlo in questa opacità costituisce il passo necessario ad aprire un angolo visuale limitato su una delle istituzioni di garanzia di più alto significato, per una libera società, finora irragionevolmente mai davvero offerto all’attenzione dell’analfabetismo giuridico sociale.
L’esemplificazione per estratti degli atti della normale giurisdizione domestica del CSM rende ora, brutalmente, conto del dato grezzo di fatti, atti, opinioni e decisioni svestite della imperscrutabilità del lessico giuridico, introducendo all’evidenza di uno squilibrio tra funzione e gestione, tra scopi e metodi, tra generalità e specialità dei criteri.
Il disvelamento di casi imbarazzanti di ordinaria grettezza, follia o banale sconcezza di esercizio della funzione giurisdizionale (o, in ogni caso, della vita di rappresentanti dell’ordine giudiziario) svilisce l’immagine di superiorità morale della funzione giudiziaria, rendendola oggetto necessario di ripensamento, ma rischiando così di toglierle quell’immagine di necessaria intangibilità, condivisa anche da colui che ne subisce il potere e su cui il rispetto liberale delle regole si regge.
In questa prospettiva, a dispetto del titolo, non si tratta di un libro di inchiesta sulla funzionalità della magistratura o sulle disfunzionalità della giurisdizione; né la prospettazione di tesi sulla riforma della giustizia o sull’effetto dell’amministrazione della giustizia nel tessuto sociale. Ciononostante lo sviluppo della propensione alla curiosità e allo sguardo critico su un mondo opaco, per lo più ignorato e rimosso dalla attenzione, costituisce lo stimolo di partenza offerto a ciascuno per una visione disincantata e non suppositiva su uno dei cardini della democrazia occidentale.

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