Enzo Tortora, lettere dal carcere

Lunedì 28 maggio abbiamo presentato il libro “Lettere a Francesca”, ossia l’epistolario scelto con il quale Enzo Tortora scriveva dalle carceri della sua ingiusta detenzione alla compagna, insieme a Francesca Scopelliti (Giornalista), Raffaele Della Valle (Avvocato) e Giorgio Bottani (Presidente dell’Ordine degli Avvocati della Provincia di Lodi).

Affrontare le tematiche dei diritti civili da un’angolatura liberale, in questi tempi consacrati al dominio delle pur importanti questioni economico-politiche, è tanto più raro quanto necessario e salutare. Consente di respirare un’aria diversa, permette di comprendere che vi può essere un impegno e un coinvolgimento profondi per battaglie che fanno (o dovrebbero) far parte della nostra civiltà. E che, in molti casi, sono divenute parte integrante proprio delle conquiste della nostra società, che deve agli ideali liberali oltre che alle sofferenze di coloro che hanno combattuto per esse, un avanzamento generale di cui tutti possiamo beneficiare. È sempre bene ricordarlo, per i molti che se ne scordano, più o meno volontariamente.

La presentazione è stata appassionata, con una passione non certo disgiunta dalla ragione e dall’ancoraggio ai princìpi, necessari quanto spesso vilipesi o calpestati; ma una passione che si origina inevitabilmente da una vicenda che ancora oggi, a distanza di così tanti anni, getta un’ombra cupa e sinistra sulla giustizia italiana. Perché da quel 17 giugno 1983, giorno dell’arresto e dell’inizio della gogna carceraria e mediatica dell’innocente Enzo Tortora, alla morte dell’ex presentatore, avvenuta il 18 maggio 1988 dopo l’assoluzione e l’impegno politico per una giustizia finalmente non più inquisitoria, abbiamo assistito al dramma di un uomo retto che ha dovuto subire le sevizie di un sistema malato.

Enzo Tortora ha dovuto subire la mostruosità della carcerazione preventiva, la sospensione dei suoi diritti di uomo, il dileggio e l’irrisione, la sconcezza della sua sofferenza mostrata davanti alle telecamere e la pervicace ostinazione di un gruppo di accusatori che non aveva prove. È stato costretto a subire qualcosa che difficilmente si riesce a rendere a parole, ossia una condanna da totale estraneo alle accuse. In quei frangenti, in cui il clima da allucinazione kafkiana sembrava possedere le menti dei più – siano essi stati magistrati, giudici, stampa, televisione, uomini e donne comuni, tutti posseduti da una sorta di vacanza dell’intelletto, nella migliore delle ipotesi – solo poche, sparute, ma coraggiose voci si sono levate contro la barbarie, contro la canea di un ignobile teatrino, dove i figuranti si tenevano per mano, dando uno spregevole e duraturo spettacolo della nostra arretratezza come stato di diritto. Queste voci sono la testimonianza che l’uomo può raggiungere vette di abiezione, ma, nel momento in cui ragiona e sostiene la barra dei saldi princìpi a tutela dei diritti, può anche elevarsi, mostrando una via a coloro che si conformano alla diceria, alla cattiveria, all’infondatezza, all’ignoranza, alla malevolenza.

La vicenda è nota, ma è sempre opportuno ricordarla, almeno nei punti salienti: la spettacolare esibizione dell’arrestato con le manette ai polsi, le imputazioni di associazione a delinquere di stampo camorristico, oltre che di spaccio di stupefacenti, sorrette dalle rivelazioni totalmente infondate di alcuni pentiti, la carcerazione, il connubio tra la Procura e i media, un pesante clima giustizialista che ne invoca da più parti la condanna. Intorno, tutta una serie di mostruosità che la vittima di questo scempio della verità ha dovuto subire, ma soprattutto un castello di inesattezze, approssimazioni, imprecisioni gravissime e lesive fin da subito. Un impianto accusatorio che non aveva senso di essere costruito contro Enzo Tortora e che, dopo un’allucinante condanna basata sul nulla in primo grado, crolla alla prova di un’indagine professionale per scagionare quindi completamente Tortora da tutte le accuse, prosciogliendolo in Appello e in Cassazione, creando così un “affaire” che segnerà per sempre il corso del sistema giudiziario italiano.

Il successivo impegno politico di Enzo Tortora è stato consacrato a rendere un servizio per tutti, per riformare un così importante settore della vita del nostro Paese in un senso che fosse finalmente equilibrato tra diritti della difesa e prerogative della Procura, che consentisse a tutti di usufruire dei propri diritti civili inviolabili in un momento così delicato come la messa in stato di accusa, che cambiasse l’asse stesso dell’intero procedimento. Perché non si dimentichi mai che un accusato non è colpevole fino alla dimostrazione del suo presunto reato in modo certo e inoppugnabile. Perché la carcerazione preventiva non può essere uno strumento di estorsione di un’ammissione di colpevolezza né può ledere, nei tempi e nei modi, la dignità e il complesso dei diritti di ogni uomo o di ogni donna. Perché non può e non deve esservi commistione tra accusa e magistratura giudicante, con passaggi e relazioni che non definiscono una terzietà, ma un vero e proprio fronte comune. Perché le carriere di accusatori e magistrati giudicanti devono essere separate, per la tutela del supremo valore dell’equità nella giustizia. Perché il sistema giudiziario deve prevedere una responsabilità da parte dell’accusa, un’assunzione di sanzioni che ne circoscrivano l’arbitrarietà e che ne limitino il potere.

Tortora si è anche battuto per una condizione detentiva che non si configurasse come un ignobile, interminabile e disumano periodo di attesa o di tortura; ha denunciato il degrado delle carceri come luogo disumanizzante di alienazione, dopo che aveva vissuto su di sé la lacerazione di questa realtà.

Un fattore tanto più importante nel caso Tortora quanto più lontano dall’essere risolto è la soluzione dell’immane questione della spettacolarizzazione della giustizia, con tutto ciò che comporta: commistioni tra media e magistratura, preconfezionamento delle tesi, squilibrio tra le parti, esposizione al pubblico ludibrio e al giudizio di massa, in una dialettica che spesso inverte i ruoli, con i verdetti elaborati fuori dalle aule.

Leggere le lettere di Enzo Tortora ci consegna la viva, indomita, polemica, caustica e talvolta perfino (incredibile a dirsi) ironica voce di un innocente incatenato che scrive alla propria compagna con i toni dell’amore e dell’indignazione. È una lettura fortemente consigliata per tutti, ma soprattutto per coloro che, davanti al facile giustizialismo di ogni epoca, possono comprendere i grandi princìpi fondamentali della civiltà del garantismo giudiziario, ossia l’insieme di tutele di cui ogni cittadino deve poter disporre di fronte ai possibili abusi del potere pubblico. A questo straordinario insieme di garanzie individuali il liberalismo, nelle sue declinazioni più conseguenti, ha saputo fornire un apporto formidabile.

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