La Cultura, sospesa tra consenso e politica

Lo scorso 15 aprile abbiamo presentato il libro “Il pubblico ha sempre ragione. Presente e futuro delle politiche culturali” insieme a due dei coautori del volume, ovvero Angelo Miglietta (Professore di Economia e Management della Cultura all’Università IULM di Milano) e Franco Broccardi (Dottore Commercialista). Il volume cerca di rispondere ad alcune domande la cui risposta non è affatto scontata. Può o deve esistere solo la gestione pubblica delle politiche culturali? Deve essere lo Stato il solo referente, l’unica guida e il supremo decisore di ultima istanza per tutta una serie di aspetti vitali del nostro vivere associato quali l’arte, l’educazione, l’urbanistica, il sistema museale, il patrimonio paesaggistico, le biblioteche, ma anche l’industria culturale che afferisce a televisione, cinema, teatro, musica e libri?

Non è sicuramente agevole, in una società dominata da una prassi e da una mentalità “statocentrica”, tentare di rivoluzionare quella che si presenta come una via pressoché uniforme, adottata dalla quasi totalità degli attori coinvolti, seguendo metodologie e criteri mai messi seriamente in discussione. La differenza si configura nella maggiore o minore assunzione di elementi “pubblici”, ma mai nella proposta di una modalità alternativa, quella genericamente definita come “privata”, in tutto o in parte. E questo a dispetto sia dei frequentissimi esempi di pessima amministrazione o tutela della cultura da parte del settore pubblico, sia degli esempi virtuosi di gestione impostata secondo criteri di efficienza, controllo dei costi, fruibilità e casi di successo, laddove siano stati consentiti.

Il libro si pone tutta una serie di domande scomode: è giusto limitare la gestione di un patrimonio così importante e straordinario per l’Italia come l’arte e la cultura al referente “pubblico”? Non stiamo piuttosto assistendo a una progressiva e per certi versi pericolosa dilatazione delle competenze delle istituzioni pubbliche in materia? Non è forse altrettanto innegabile una inquietante burocratizzazione che, di fatto, limita fino a soffocare l’offerta e la visione di un tesoro che è comune, attraverso uno di quei paradossi che sono frequenti in questo campo? Ci stiamo rendendo conto che all’aumento esponenziale di denaro pubblico riversato nel tentativo di “democratizzare” la cultura non corrisponde un parallelo risultato in termini di partecipazione rispetto a cinquant’anni fa? Ci rendiamo conto che il modo di fruire la cultura è cambiato, e che, come afferma nell’introduzione Filippo Cavazzoni, “YouTube […] forse ha fatto più per la democratizzazione della cultura e la sua accessibilità di costose politiche culturali adottate dai singoli Stati europei”? Non è più consono ed opportuno, alla luce dei tanti cambiamenti e dei molti fallimenti, acquisire una maggiore prudenza e non credere che la soluzione risieda in un ministro, un politico, un ideologo poco aperto alla grande ricchezza fornita dal contributo della realtà dei singoli, del mercato, degli imprenditori e dei fruitori finali del prodotto culturale? Perché continuare ad assumere un atteggiamento paternalistico e poco rispettoso della libertà?

I temi essenziali affrontati nel volume sono gli ostacoli frapposti da una burocrazia farraginosa e penalizzante, l’incapacità di sfruttare una leva fiscale modulabile, un riorientamento che tenga in debito conto la domanda rappresentata dai desideri dei consumatori, la riflessione intorno a una minore invasività delle amministrazioni nel “fare” cultura e piuttosto “agevolare” cultura dal basso.

Sono, inoltre, estremamente stimolanti le riflessioni compiute sulla criticità rappresentata da un approccio gestionale conservativo, protettivo e quindi posto sulla difensiva piuttosto che su una strategia basata sulla propositività, sull’offerta, sulla fruizione. Allo stesso modo, risultano di grande interesse le considerazioni riguardanti la cornice normativa e giuridica, vòlte a promuovere una flessibilità e una varietà come potenziali chiavi per una struttura più adeguata ai bisogni specifici.

Quando nello specifico si riflette sullo sviluppo della televisione, sulla sua mutazione e sui suoi accessi, viene spontaneo interrogarsi sul senso dell’esistenza di una emittente statale oltre che sul significato di servizio pubblico. Quando si pensa al cinema, in Italia, ci si può legittimamente chiedere se non vi sia una pericolosa correlazione fra pessima qualità con un valore estetico discutibile e finanziamento statale. Lo stesso dicasi, molto spesso, per il teatro che beneficia, come il cinema, di contributi pubblici a pioggia, distribuiti secondo logiche spartitorie e, spesso, di difficile comprensione.

In somma sintesi, ciò che emerge dal senso complessivo dei molti e rilevanti contributi inseriti nel volume è la speranza che, ad un quadro già di per se complesso e inefficiente, non si aggiungano altri contributi orientati verso lo stesso spirito “statalistico” che ha finora contraddistinto ogni settore culturale e che, piuttosto, si pervenga al più presto a una salutare semplificazione che passi attraverso un’attenzione, e non più una preclusione, verso i privati, le imprese e i consumatori.

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