L’iniziativa privata corre più velocemente dei governi

Lunedì 5 settembre sono riprese le nostre serate con la presentazione del libro di Franco Debenedetti “Scegliere i vincitori, salvare i perdenti” insieme all’autore e Stefano Parisi. Non più tardi di qualche giorno prima, la mezzobusto di un importante TG nazionale annunciava, con fiducioso compiacimento, l’intenzione del governo di stimolare la ripresa del sistema Italia destinando fondi pubblici ad investimenti di “qualità”. Nell’ascoltare questa notizia, ci siamo soffermati sull’espressione della brava professionista, cercando inutilmente in essa qualche increspatura che desse ad intendere che anche lei stava rivolgendo a se stessa la medesima domanda che noi ci stavamo ponendo: “qualità, certo. Ma chi decide della qualità di un investimento pubblico?”. Non potevamo sapere, allora, che di lì a poco ci saremmo trovati per le mani il testo di Franco De Benedetti che proprio di questo genere di interrogativi si occupa, offrendo risposte che ci paiono convincenti.

Diceva Albert Einstein: “Follia è fare sempre la stessa cosa ed aspettarsi risultati diversi”. Parafrasando: ”Follia è insistere con le politiche industriali ed aspettarsi creazione di valore”. Ecco, ci pare essere questo il senso del messaggio del volume di De Benedetti (e non ce ne voglia l’autore se ci azzardiamo a sintetizzare in una frase, di peraltro così nobile conio, il contenuto della sua fatica editoriale).

Prima come manager in importanti aziende e poi come parlamentare, lo scrittore torinese ha potuto assistere da un palco privilegiato al desolante spettacolo di un pluridecennale copione interventista messo in scena da forze politiche sempre attente a massimizzare la propria funzione di utilità. Che fossero ispirate da motivi ideologici o da una più banale incapacità di fare fronte a pressioni demagogiche provenienti dalla pancia del paese, le iniziative di politica industriale si sono susseguite, tra operazioni di salvataggio e decisioni di investimento, a partire dai primi anni del regno. La chiave di volta di questo percorso storico è rappresentata dalla fondazione dell’IRI, il cui destino è stato segnato dall’avvento delle direttive europee, ma la cui storia pare non voler finire mai, dato che, come ricorda l’autore, la Cassa Depositi e Prestiti sembra destinata, nelle intenzioni più o meno consce della attuale classe politica, a prendere (in una sorta di gioco a rimpiattino con Bruxelles) il suo posto.

Dopo una introduzione teorica ai mali dell’interventismo (a cominciare dalla vulgata che attribuisce al solo settore pubblico ed alle sue risorse pressoché illimitate la possibilità di promuovere innovazione), l’autore ripercorre, riversando nelle pagine del libro tutta l’esperienza di una vita, le principali vicende che hanno caratterizzato la politica industriale del Paese, in particolare nel secondo dopoguerra: dalla decisione di preservare l’IRI (seppur residuato del ventennio) alla nazionalizzazione dell’energia elettrica, dalla Cassa del Mezzogiorno e le cattedrali nel deserto ai tormenti dell’industria chimica, fino ad arrivare alle grandi e pasticciate privatizzazioni degli anni novanta che hanno decretato (forse) la fine dell’epopea dell’industria di stato. 

E poi l’universo bancario, con le liberalizzazioni volute da Amato, la stagione velenosa delle OPA e contro OPA dei “furbetti del quartierino”, il “confessionale” dell’ex Governatore Fazio con le sue smanie “costruttiviste”, il tragicomico “abbiamo una banca” sussurrato al telefono, la lunga guerra tra il Tesoro e le Fondazioni, il lento tramonto della Banca d’Italia, sostituita nelle sue funzioni più importanti (la vigilanza, in particolare) dalla BCE.

Ed anche l’Europa, nata sotto la stella della libera circolazione di merci, servizi e persone e del ripudio degli aiuti di stato, diventata campo di battaglia per neo interventisti, tra eccessive pulsioni regolatorie (ma in che misura i vantaggi derivanti alle banche dai nuovi spazi di mercato verranno compensati dai costi di compliance?, si chiede l’autore), nefaste pretese di armonizzazione fiscale, il fenomeno carsico degli aiuti di stato più o meno espliciti e deleterie richieste di flessibilità da parte degli stati membri (solo alcuni, per la verità).
Infine, lo scontro sull’industria televisiva e l’anomalia Berlusconi, il tycoon arrivato al premierato sull’onda del suo successo nella guerra al monopolio pubblico, che però non riuscì, alla prova dei fatti, ad infrangere l’inveterata abitudine interventista della politica patria (e forse nemmeno ci provò).

Sullo sfondo, certa magistratura avvezza ad entrare a piè pari non solo nelle faccende politiche (e già basterebbe e avanzerebbe), ma anche in quelle industriali, come mostra il recente “interessamento” della procura tarantina ai destini delle acciaierie Ilva.

Di questo e molto altro ancora tratta il volume, ricorrendo ad un linguaggio sempre chiaro (anche quando sono i temi più tecnici ad essere trattati) e venato di ironia (che, per la verità, in qualche punto assomiglia molto più ad amaro sarcasmo). Ma, ed è molto importante, non si tratta di una narrazione fine a se stessa, una mera giustapposizione di eventi per quanto brillantemente esposti. L’intento, a nostro parere riuscito, è quello di mettere a fuoco la narrazione storica inforcando le lenti della teoria e dimostrare, sulla base degli oggettivi fallimenti dell’interventismo pubblico, la superiorità del modello liberale.

Una storia, quella della politica industriale italiana, in cui la vittima, l’inveterato statalismo, non pare proprio voler dare soddisfazione a chi cerca (pochi, per la verità) di sopprimerla e continua, come araba fenice, a rinascere dalle proprie ceneri. Ci pare, però, che l’autore abbia in serbo un finale a sorpresa. Nel godibilissimo ultimo capitolo, De Benedetti traccia un interessante quadro strategico delle tecnologie presenti e di quelle che verranno e, soprattutto, delle nuove soluzioni messe a punto per estrarre valore dalle libere interazioni tra individui. Il dipinto che emerge è di una fluidità e di una creatività impressionante e davvero crediamo che i pesanti apparati pubblici faranno fatica, nei prossimi decenni, a stare al passo con questi scenari in continua evoluzione. Gli individui e l’iniziativa privata dimostrano ancora una volta di poter correre più velocemente dei governi. Per noi liberali, una buona notizia.

Commenta l'articolo

commenti