Il 5 dicembre è uscita la settima edizione dell’Indice delle liberalizzazioni, a cura di Carlo Stagnaro per l’Istituto Bruno Leoni, centro studi di ispirazione liberale e lo scorso 18 dicembre il rapporto è stato presentato a Lodi dalla nostra Associazione.
L’Indice è uno studio comparato sull’apertura dei mercati alla concorrenza nell’Europa a 15: Italia, Germania, Francia, Spagna, Portogallo, Grecia, Regno Unito, Irlanda, Svezia, Finlandia, Danimarca, Austria, Paesi Bassi e Belgio. Per misurare il livello di concorrenza, calcolato su molti settori (dall’energia ai trasporti su treni e aerei, dalle poste al mercato del lavoro), i ricercatori si sono impegnati ad analizzare il contesto normativo nei diversi paesi, concentrandosi non sugli elementi “pro concorrenziali”, il cui impatto effettivo è di difficile interpretazione, ma piuttosto sull’esistenza di ostacoli alla concorrenza. Per fare solo qualche esempio in vari settori di mercato italiani, pensiamo ai servizi postali, dove sono presenti regimi tributari discriminatori tra l’incumbent (il soggetto monopolista – o dominante – nel mercato, cioè Poste italiane) e i concorrenti; oppure i “monopoli tecnici” dovuti a reti fisiche per elettricità, gas o telefonia fissa (pensiamo a Telecom italia); o ancora vi sono limiti alla concorrenza dove non c’è contendibilità degli asset, è il caso di qualsiasi situazione in cui vi sia proprietà pubblica delle aziende che offrono un particolare servizio ai cittadini, considerato “bene pubblico”.
L’Indice delle liberalizzazioni è espresso in percentuale (di apertura alla concorrenza) dove il 100% rappresenta idealmente il contesto normativo ottimale, ovvero quello di un paese che adottasse tutte le migliori pratiche (effettivamente esistenti) a livello europeo. L’Indice si esprime non solo per i vari settori, ma anche in una misura generale, come media. Ciò che balza immediatamente all’occhio è che i paesi che si collocano nelle peggiori
posizioni, ovvero Grecia e Italia, sono anche quelli che soffrono di più la crisi economica, mentre paesi come Svezia e Gran Bretagna, in testa alla classifica, sono anche quelli che hanno avuto una migliore performance economica negli ultimi anni.
Come si legge nell’Indice, «quanto più la concorrenza è libera, tanto più il rischio sta sulle spalle degli operatori di mercato. In tal modo saranno i consumatori a fare giustizia delle diverse scelte di investimento. Al contrario, quanto più un mercato è “controllato”, tanto più questo si traduce in una socializzazione, esplicita o implicita, del rischio». Questo può comportare una deresponsabilizzazione delle imprese, che rischiano meno per i loro errori, a scapito di tutti i cittadini, che invece ne pagano le conseguenze. La presenza degli ostacoli alla concorrenza sembra essere una delle principali cause del ristagno economico, come appare chiaro se compariamo la situazione di uno stato poco liberalizzato, come l’Italia, con stati virtuosi. L’esempio del trasporto su ferrovia è eclatante: in Italia (valore dell’indice: 36%) la domanda nel 2012 rispetto al 1995 è complessivamente addirittura inferiore! Siamo l’unico tra i grandi Paesi dell’Unione Europea, mentre Gran Bretagna e Svezia (valori dell’indice, rispettivamente, 95% e 100%) hanno registrato incrementi superiori all’80 e 60%. L’Italia rimedia parzialmente solo grazie all’alta velocità, che per la prima volta vede l’ingresso di un concorrente di Trenitalia. Gli investimenti nell’alta velocità, fino al 2012, non sono purtroppo stati sufficienti a bloccare la caduta dei servizi a media-lunga percorrenza, tagliati da Ferrovie dello Stato perché ritenuti in perdita, senza tuttavia che siano mai state effettuate gare per quei servizi che godevano di sussidi pubblici!
Va meglio per quanto riguarda il trasporto aereo (indice al 59%), ma soltanto grazie alla debolezza della nostra compagnia di bandiera, che lascia spazio a concorrenti più forti, come Easyjet e Ryanair. Una nota positiva è l’introduzione nel corso del 2012 dell’Autorità dei Trasporti: finalmente lo stato italiano non prende parte al mercato come giocatore (ad esempio tenendo le redini di un’azienda come Alitalia), bensì come
regolatore, istituendo autorità indipendenti. È un buon segno la fine del monopolio sulla rotta Linate-Fiumicino, con lo scadere del privilegio riconosciuto ad Alitalia al momento della sua privatizzazione nel 2008, seppure continuino a sussistere forti barriere all’entrata nell’aeroporto di Linate, soggetto ad anacronistici limiti sul numero di movimenti da parte del regolatore statale.
Dalla lettura dell’Indice però quello che colpisce maggiormente sono le posizioni che l’Italia occupa nel mercato televisivo (ultima) e dei carburanti (penultima). Nel primo, l’operatore pubblico vale oltre il 40% dell’ascolto e il suo finanziamento dipende pesantemente dai ricavi commerciali derivanti dalla pubblicità, a differenza degli altri paesi europei, con un effetto di spiazzamento rispetto agli operatori privati. Secondo gli autori dell’Indice, «poste e televisione risentono in maniera pesantissima dell’interesse dello Stato a tutelare le proprie società partecipate (Poste Italiane e Rai), interesse che si traduce nell’adozione di un sistema di regole fondamentalmente pensate per limitare la concorrenza». Nel caso dei carburanti invece, pesano l’elevata tassazione – che agisce da barriera all’ingresso – e soprattutto la protezione di una rete di distribuzione sovrabbondante, che fatica ad aggiustarsi (imponendo extracosti al sistema) a causa di innumerevoli ostacoli di natura normativa prevalentemente regionale.
È inutile menzionare le rigidità nel mercato del lavoro, che risultano in un elevato livello di lungo termine, oppure la dubbia utilità dei meccanismi dirigisti previsti dallo Stato italiano per quanto riguarda i servizi notarili e farmaceutici, dato che molti Paesi occidentali riescono ad offrire servizi mediamente migliori in ambedue i campi pur in contesti più liberalizzati.
Sono tanti i settori menzionati nel lavoro dei ricercatori dell’IBL, che con dovizia hanno sviscerato ogni particolare della realtà normativa dei diversi Paesi analizzati – in particolare l’Italia – mettendo in luce caratteristiche interessanti, e talvolta illuminanti, riguardanti i settori di mercato analizzati e il contesto normativo in cui gli operatori
economici si muovono. La conclusione è desolante ma, purtroppo, prevedibile: l’Italia è il paese meno liberalizzato d’Europa.