Gli scenari di una possibile uscita dall’euro

Lunedì 5 novembre abbiamo presentato un volume collettaneo, curato da Carlo Stagnaro e pubblicato dall’Istituto Bruno Leoni, intitolato “Cosa succede se usciamo dall’euro?”. Erano presenti tre degli autori dei vari contributi: Paolo Manasse (Professore di Macroeconomia e Politica Economica Internazionale presso l’Università di Bologna), Alberto Saravalle (Professore di Diritto dell’Unione Europea presso l’Università di Padova) e Natale D’Amico (Consigliere della Corte dei Conti).

La cronaca politica di questi mesi ha portato alla ribalta la concreta possibilità che una maggioranza di governo possa decidere di portare il paese fuori dall’euro, cioè dalla moneta unica decisa nel 1999 e resa realtà corrente per gli italiani dal 1 gennaio 2002. Vi è infatti una diffusa quanto trasversale sfiducia nei confronti dell’Euro e della possibilità di rilanciare l’Italia senza prima liberarsi della moneta unica, additata come causa dei mali di cui soffre la nostra economia.

Il libro si propone di negare con solidi, fondati e inoppugnabili argomenti questa cattiva fama di cui gode l’Euro, mostrando l’infondatezza delle critiche, evidenziando una narrazione alternativa e più razionale che ne sottolinei anche gli indubbi meriti troppo spesso dimenticati e che mostri quanto strumentali possano essere le reprimende verso uno strumento artatamente delineato come un comodo capro espiatorio.

A questo proposito, il volume contiene i pareri di alcuni esperti, che da punti di vista differenti – economico, giuridico, finanziario, creditizio, produttivo e del risparmio – sono concordi nell’auspicare il mantenimento del sistema-paese nell’alveo della moneta unica europea, mostrando le vastissime problematiche derivanti da uno scenario di Ital-exit.

Se si dovessero prevedere le conseguenze di un’ipotetica attuazione pratica di questa idea, quella più immediata sarebbe proabilmente una crisi di fiducia dei mercati. A seguire, una svalutazione pressoché istantanea della nuova moneta italica, quindi un incremento dei prezzi, dovuto al peso delle importazioni nella bilancia commerciale, e perciò una diminuzione del potere d’acquisto degli italiani, che graverebbe sulle tasche dei cittadini come una gigantesca patrimoniale. Dato il crollo della fiducia, l’accesso ai mercati dei capitali diventerebbe difficile, quindi anche le linee di credito sarebbero interrotte. Il debito pubblico nominato in euro sarebbe molto più costoso rispetto a una nuova lira svalutata. Inoltre i creditori potrebbero opporsi alla conversione del debito pubblico nella nuova moneta, minacciando anche ritorsioni legali. Insomma il panorama che si offrirebbe all’Italia che decidesse di uscire dall’eurosistema sarebbe caotico e pericoloso. I conti pubblici, con tutti i loro indicatori, ne sarebbero pesantemente colpiti, conducendo la finanza pubblica sull’orlo del baratro. Ci sono, poi, gli effetti sull’universo bancario, che nella migliore delle ipotesi si presentano come un quadro devastante del credito e del risparmio. A ruota seguirebbero problematiche insolvibili per i privati e per le imprese (credito e mantenimento dell’occupazione).

Vi sono, inoltre, aspetti redistributivi da tenere in considerazione, poiché le conseguenze di un’uscita dall’eurosistema sarebbero più pesanti proprio per gli strati più deboli e meno informati della popolazione, oltre che per i lavoratori a reddito fisso e i pensionati. 

La complessa posizione anti-euro, che ha bisogno di un’analisi appro

fondita e obiettiva, spesso si configura come la ricerca di un comodo quanto infondato capro espiatorio per giustificare atteggiamenti o posizioni tendenti a confermare la persistente tendenza della società e della politica all’implementazione del debito e, quindi, del deficit. Essere contro l’Euro troppo spesso coincide con una posizione di rilassatezza nel controllo dei conti pubblici, specialmente da parte di quanti dovrebbero vegliare perché non si incrementi pericolosamente il deficit.

Per concludere citiamo una sintesi desunta da Carlo Stagnaro: “[…] la debolezza italiana ha giustificazioni istituzionali, e antiche, ben prima che congiunturali e recenti, e legate all’interazione tra le regole formali, il sistema dei partiti, la corruzione endemica, l’iper-regolamentazione e l’iper-tassazione, accompagnata alla tolleranza verso le condotte illecite, l’organizzazione dello Stato, la mancanza di concorrenza”. Insomma, i nostri problemi economici hanno tutt’altre cause, altro che l’euro.

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