Le sfide della sinistra al “neoliberismo”

“Liberalismo inclusivo” è l’ultimo libro di Michele Salvati e Norberto Dilmore (pseudonimo) pubblicato per Feltrinelli.

Sotto gli auspici di Polanyi, Keynes, Piketty e Milanovic, esso consiste essenzialmente in un manifesto programmatico per un futuro assetto governativo di centrosinistra incaricato di ereditare i valori socioeconomici di quello che è stato l’ordinamento (o Patto) socialdemocratico italiano del post-Seconda guerra mondiale. Questo assetto è resistito fino all’arrivo della Grande Recessione del 2007-2008, che ha invece lasciato spazio al ben più pericoloso e disastroso assetto “neoliberista”, almeno nella ricostruzione fornitane dagli Autori.

Dilmore e Salvati ingrassano infatti le fila di quegli autori che scrivono in campo politico per i quali il termine “neoliberale/neoliberista” non solo esiste, ma è anche carico di significato e foriero di misure che hanno aumentato le disuguaglianze e impoverito le popolazioni.

Già dall’inizio, il testo si propone di distinguere l’esistenza di diversi tipi di “liberalismo”, liberalismo di destra (unfettered liberalism) e di sinistra (embedded liberalism), differenziati per motivi ideologici, teorici e storici. La conclusione è che il paradigma più auspicabile è quello di tipo embedded, ossia quel liberalismo post-Seconda guerra mondiale che è stato capace di imbrigliare capitalismo e libero mercato e che “ha conosciuto insieme un intenso sviluppo economico, piena occupazione, welfare state e forte attenuazione delle disuguaglianze sociali”. Questo periodo coincide, secondo gli Autori, proprio con “l’apogeo delle socialdemocrazie”.

Infatti, il nuovo governo a guida della nuova sinistra democratica deve avere come principi fondamentali “la difesa della democrazia rappresentativa liberale in un contesto di mercato e l’attenzione per le condizioni di vita della grande maggioranza dei cittadini”.

L’appello degli Autori alla coscienza degli schieramenti di centro-sinistra e dei loro elettori nasce dal fatto che essi intravedono se non la fine, una lenta ma evidente crisi, delle socialdemocrazie a favore di tendenze populiste, etno-nazionaliste ed estremiste. In un quadro di questo genere, gli Autori caricano il liberalismo inclusivo (embedded liberalism) di una missione salvifica, quasi messianica che sarà in grado di far ritornare le democrazie mondiali a quella “età dell’oro” che aveva permesso, allo stesso tempo, “forte crescita economica, la diffusione dei suoi benefici su una larga parte della popolazione, condizioni di libertà e democrazia mai verificatesi in precedenza”.

Per ottenere nuovamente queste condizioni, il compito del “liberalismo inclusivo” è un (pericoloso) esercizio di ingegneria sociale che deve sconfiggere due nemici giurati, ovvero neoliberismo ed etno-nazionalismo, imporre una narrativa che “deve diventare egemone tra gli studiosi di economia e scienze sociali e riuscire ad influenzare il mondo politico”, ed essere sostenuto e condiviso da molte forze al governo e per un considerevole lasso temporale.

I problemi della situazione politica attuali sono quelli individuati da Piketty nei suoi due volumi (Il capitale nel ventunesimo secolo e Capitale e ideologia) in relazione alla crisi dei valori e delle misure socialiste, analizzati in profondità nel capitolo terzo. Seppur gli Autori prendano ripetutamente le distanze da alcune conclusioni di Piketty, è evidente che ne condividono i punti di partenza, di sviluppo e talvolta le posizioni di arrivo.

È, tuttavia, dal capitolo quarto che si entra nel vero aspetto programmatico del libro. Vengono individuate le tre condizioni per l’affermazione della nuova narrativa egemone: 1) una grande crisi, percepita come tale nell’angolo di mondo più sviluppato, in grado di mettere in dubbio e la narrativa dominante precedente (il famoso “neoliberismo”); 2) la presenza al governo in Paesi chiave (come gli USA) di coalizioni che sostengano l’ideologia del “liberalismo inclusivo”, e 3) l’affermazione di quest’ultima ideologia attraverso la condivisione dei nuovi valori da parte di una grande maggioranza di partiti al governo.

Questi sono stati i tre elementi che hanno portato all’affermazione del “neoliberismo” dopo la Grande Depressione. Allo stesso modo, il “neoliberismo” potrà cedere il passo al “liberalismo inclusivo” dopo la Grande Recessione e la pandemia.

Un riassetto integrale del precedente regime socialdemocratico post-Seconda guerra mondiale, è però impossibile, secondo Salvati e Dilmore, a causa delle mutate concezioni del capitale (che ora è diventato molto più fluido, o intangibile); la trasformazione del mondo del lavoro (ora più frammentato a causa del progresso tecnologico e della globalizzazione, e soggetto molto di più ai meccanismi di mercato piuttosto che a patti tripartiti); l’importanza di gran lunga minore assunta da partiti, sindacati e associazioni imprenditoriali; e il nuovo ruolo dello Stato nell’economia (incaricato nell’epoca del “neoliberismo” di lasciare le politiche di stabilizzazione macroeconomica quasi esclusivamente alla politica monetaria).

La narrativa del “liberalismo inclusivo” dovrà toccare punti cruciali in campo di 1) politica estera, che dovrà essere improntata all’introduzione di politiche “mondiali” che scongiurino cambiamento climatico, pandemie e potenziali conflitti tra nazioni; 2) crescita inclusiva e sostenibile, in cui “lo Stato dovrà giocare un ruolo di indirizzo e guida che pochi avrebbero immaginato solo qualche anno fa”, a partire da nuovi sistemi di tassazione, equità ed inclusione; 3) leadership politica, con “classi dirigenti all’altezza, non solo in termini di individualità, ma anche e soprattutto di elaborazione collettiva”; e 4) una nuova concezione del capitale, che dovrebbe in futuro “incorporare gli interessi degli stakeholders nel perseguimento degli obiettivi dell’impresa”.

Infine, l’agenda per le nuove forze di governo impegnate a promuovere e affermare il “liberalismo inclusivo” sono chiaramente delineate nel capitolo settimo e sono il punto finale di questo libro-manifesto: “In campo economico-sociale, ci sono sei aree in cui un centrosinistra rinnovato può fornire un contributo fondamentale al successo di una nuova fase di liberalismo inclusivo: (1) rilanciare su nuove basi la cooperazione economica internazionale; (2) promuovere politiche economiche che tornino a perseguire politiche di piena occupazione; (3) gestire le trasformazioni tecnologiche, al fine di ottenere una crescita sostenibile sia dal punto di vista ambientale che sociale; (4) promuovere politiche ambiziose – ma realistiche – di redistribuzione dei redditi e delle ricchezze; (5) ricondurre nell’alveo del centrosinistra le classi di reddito basse e medio-basse, e (6) dotarsi di un’ambiziosa strategia europea sia in termini progettuali che di alleanze sociali”.

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