La società civile, una difesa per l’individuo

La società civile, una difesa per l’individuo

Martedì sette novembre abbiamo presentato, nel contesto delle serate dedicate ai classici del pensiero liberale e libertario, il “Saggio sulla storia della società civile” di Adam Ferguson. Erano con noi Daniele Francesconi, direttore del Festival di Filosofia di Modena, Carpi e Sassuolo, Paolo Luca Bernardini, professore di Storia moderna presso l’Università degli Studi dell’Insubria e Alessia Castagnino, Ricercatore di Storia Moderna presso l’Università di Firenze. Questo libro, che ha avuto uno straordinario successo appena uscito, raggiungendo la ragguardevole cifra di sette edizioni vivente il suo Autore, è un’opera che ha saputo sicuramente interpretare al meglio quelle che erano le tendenze ed il sentire della sua epoca e del suo contesto. Un libro per certi versi ambivalente, sotto molti aspetti anche contraddittorio, ma capace di far emergere alcune tematiche di estremo interesse e che si pone come un’opera in grado di dare forma a concetti non certo nuovi, e tuttavia definiti secondo modalità percepite come estremamente stimolanti dai suoi contemporanei e dai suoi successori. Il concetto stesso di “società civile”, di cui il libro si propone di fare la rassegna storica, è un concetto che, se pur non rappresenta un’invenzione originale di Ferguson, è tuttavia a lui e a quest’opera che deve la sua consacrazione, divenendo un riferimento per le analisi di filosofia politica, sociologia, analisi delle istituzioni. Ferguson sottolinea come la “società civile” non  possa omologarsi con il concetto di “Stato”, essendo entità non necessariamente sovrapponibili e confondibili tra loro. Per l’autore scozzese, come pure per il formidabile inquadramento intellettuale che si ritrovò a condividere, il cosiddetto “Scottish Enlightenment”, l’organizzazione statuale è ammessa, ma ne vengono fortemente ristretti il campo, l’ambito, le possibilità. Viceversa, la società civile ha contenuti, implicanze, domini che dovrebbero rimanere autonomi e fuori da ingerenze. Lo Stato, allora, non deve entrare all’interno per cercare di controllarla e la società ha proprie pertinenze nel vivere associato, consentendo quindi agli individui di porre tra sé stessi e il sistema innaturale eretto in difesa dei propri diritti una sorta di ulteriore difesa. La “civil society” fergusoniana è una totalità dove si riflettono i fenomeni sociali e politici, ma dove manca lo Stato (a differenza di quello che avverrà per Hegel). Ferguson pensava ad elementi ben precisi quando rifletteva intorno alla società civile, ossia a quel grande, indissolubile insieme di aspetti pertinenti alla civiltà, al mercato, agli usi, ai costumi, alle maniere, alle forme di governo, agli stessi declini, ai momenti di apogeo, di corruzione. In una parola, centrale quanto condivisa, l’evoluzione. I passaggi, mediante direzioni di senso complesse, di stati di organismi intrecciati o distinti, che possono essere lette come un processo per fasi o momenti. Ferguson ebbe, nei confronti della progressiva preponderanza dei commerci, un atteggiamento differente rispetto al suo coetaneo ed omonimo Adam Smith, nutrendo verso la direzione, la forza e il senso che stava prendendo la Scozia una profonda diffidenza quando non un’aperta ostilità. Ciò che si stava producendo nel tessuto sociale, politico ed economico aveva necessità di essere disciplinato in quanto rischioso, facile alle grandi fortune come alle precipitose cadute e sicuramente fomite di corruzione e lacerazioni. Di fronte a questo mondo in rapido mutamento, che Ferguson vede scorrere dinanzi a sè con timore e fastidio, la risposta è l’intento moralizzatore, l’ancoraggio ad un’etica della consuetudine e della conservazione. Questo timore e questo fastidio si accompagnano allo sconcerto che un pensatore nel solco del realismo machiavellico come Ferguson, un filorepubblicano amante delle tradizioni delle sue terre deve necessariamente provare dopo gli avvenimenti che portano la Scozia all’Unione con la Corona Inglese dal 1707. read more

Il lascito di Margaret Thatcher

Il lascito di Margaret Thatcher

Lunedì trenta ottobre, in occasione delle serate dedicate agli statisti liberali, abbiamo presentato “La politica economica di Margaret Thatcher”, di Cosimo Magazzino. Erano con noi l’Autore del libro, professore di Politica economica presso l’Università di Roma Tre, Sebastiano Bavetta, professore di Scienze economiche, aziendali e statistiche presso l’Università degli Studi di Palermo ed Antonio Masala, professore di Filosofia politica presso l’Università di Pisa. Il libro si occupa, come recita inequivocabilmente il titolo, primariamente dei provvedimenti di politica economica attuati da Margaret Thatcher durante gli undici anni (1979-1990) della sua carica ininterrotta a Primo Ministro del Regno Unito. Ma esso ha anche una significativa sezione che precede il premierato della cosiddetta “Iron Lady” e che si occupa di contestualizzare e descrivere il quadro che ha preceduto l’avvento al governo della protagonista dell’opera. In particolare, vengono descritti gli anni Settanta, nel loro susseguirsi di premier conservatori e laburisti, con esplicito rilievo per Edward Heath, Harold Wilson e James Callaghan. Sebbene essi provenissero da fronti opposti, da esperienze anche molto diversi, essi possono essere sintetizzati secondo alcune linee comuni peraltro poco lusinghiere, una volta che si cerca di fare un bilancio del loro operato. Essi, infatti, prescindendo dallo schieramento, attuarono tutti una medesima ricetta di fronte ai problemi del Regno Unito, ricetta che può dirsi, con minime sfumature, non certo sostanziali, una pedissequa quanto inefficace accettazione della via tracciata da John Maynard Keynes. Il che significò  una esondante dilatazione della spesa pubblica, alimentata da manovre in deficit, la concezione per la quale la moneta non poteva non essere coinvolta nei meccanismi della politica (con conseguente aumento dell’inflazione), la centralità della tassazione come strumento principale per le azioni di politica economica, la concezione di una strutturale instabilità degli equilibri di mercato, la presenza dello stato in tutti i gangli della società, in un progressivo ed apparentemente senza sosta accrescimento, quello che, in una parola fu definito “Big Government”. Questo indirizzo, ad onor del vero, caratterizzò non solo il decennio che precedette l’avvento di Margaret Thatcher, ma l’intero secondo dopoguerra, promanazione diretta di quell’orientamento emergenziale che fu l’economia di guerra. In questo senso, fu ancora più impervio il compito che la Thatcher si trovò ad affrontare, essendo un compito esteso non solo a tutti gli ambiti del vivere civile, sociale, politico ed economico, ma anche ad una mentalità radicata, ad un muro nelle volontà per incapacità di vedere un’alternativa, per accettazione passiva del declino. Margaret Thatcher ereditò “il grande malato d’Europa”, come fu, a ragione, definito il Regno Unito fino alla primavera del 1979 e seppe risollevarlo, ottenendo, nei suoi anni di gestione del governo, grandi risultati, oltre che, soprattutto, un’inversione di rotta epocale, un riorientamento copernicano nelle vite dei suoi concittadini e, perfino, nella considerazione che il mondo tornò ad avere del suo Paese, divenendo un esempio di caparbietà e di un’alternanza possibile. Sicuramente il suo avvento non fu certo un fatto fortunoso o casuale, quanto piuttosto il frutto di una lunga, laboriosa e accurata preparazione sia da parte della sua leadership che da parte di tutti quei laboratori culturali che ne implementarono i possibili scenari e le offrirono le idee per l’azione. Un’azione, sia chiaro, che non avrebbe potuto concretarsi con l’efficacia di cui si ebbe generale esperienza senza il decisivo peso della personalità e del carisma della stessa Thatcher, ma che fu progettata con chiarezza in tutti i suoi aspetti, non escluso quello comunicativo, con largo anticipo. La sua politica monetaria improntata alla restrittività, una capacità formidabile di mostrarsi flessibile, una lotta spietata all’inflazione, il recupero dell’idea che il risparmio è una virtù che genera reddito, non un patrimonio da dilapidare sconsideratamente, l’affidamento ai tassi di interesse reali, non ad un mondo fittizio e fantasioso, un impegno effettivo e senza deroghe verso le liberalizzazioni e le privatizzazioni, il recupero del primato della City come piazza finanziaria mondiale di primissimo livello, le moltissime riforme nel campo del lavoro, che vanno dall’innalzamento della produttività al contenimento della sindacalizzazione, dall’abbassamento del potere delle Unions a meccanismi orientati all’abbattimento dei sussidi, il grande riassetto del Welfare State beveridgiano, la fine degli aiuti alle imprese in perdita, una vasta democrazia dei proprietari mediante un piano di vendita degli immobili di proprietà pubblica agli inquilini che li abitavano. L’elenco sarebbe lunghissimo e lasciamo che sia il documentato libro a fornire ai lettori che vorranno avere il piacere di affrontarlo il gusto di una lettura istruttiva e, in taluni passi, sebbene l’argomento sia molto tecnico, finanche appassionante. L’opera si compone anche di una sezione che analizza i contesti e le esperienze che si susseguirono a quella della Lady di Ferro e il loro esame è, paradossalmente, il più chiaro esempio di come questa donna, il suo operato, le sue riforme siano state così importanti da segnare una vera e propria era, che prende il suo nome. Proprio da suo lascito indelebile tutti i suoi successori, del suo partito come di quello laburista, hanno dovuto fare i conti con la sua figura, ma ancora di più con le sue decisioni, che seppero insieme interpretare e cambiare lo spirito e le idee dei suoi tempi. read more

Il caso Tortora come espressione di problemi sostanziali nell’esercizio della giustizia

Il caso Tortora come espressione di problemi sostanziali nell’esercizio della giustizia

È necessario, a volte, dare ragioni della estenuazione della memoria sociale; interrogarsi sulla necessità, e sul valore, della persistenza del ricordo, soprattutto per evitare che esso diventi solo il filo che lega un fatto alla nostra vita personale e privata , ed alle memorie di essa.
L’esercizio di tale critica è tanto più evidente se si pensa che la distanza del tempo ormai fa sì che certi fatti siano completamente estranei al vissuto ricostruibile di tutte le generazioni successive, per le quali il semplice rito della commemorazione è privo di riferimenti e spesso solo incomprensibile abitudine collettiva.
La vicenda di Enzo Tortora è ormai caduta nel cono della abitudine sociale, per i più ormai priva dell’effetto dirompente che le derivava dalla conoscenza pubblica del personaggio e dalla straordinarietà emotiva legata alla rilevanza del protagonista, per cui è interessante interrogarsi se un nuovo libro dell’avvocato Raffaele Della Valle, sulla scia delle innumerevoli pubblicazioni ed iniziative che in questi anni si sono moltiplicate su quella ormai lontana vicenda giudiziaria, abbia un senso che vada al di là del viaggio interiore di chi l’ha vissuta in proprio, come legale difensore di Tortora, e agisca comprensibilmente nella linea del ricordo personale di un periodo irripetibile della propria vita.
Nel libro di Della Valle c’è sicuramente la narrazione personale e il significato autobiografico, ma il valore del percorso ricostruttivo della vicenda processuale che l’autore fa, con la sicurezza di chi riannoda i fili della propria memoria, mai interrotta, di quei giorni, produce un altro effetto; quello che giustifica il senso della rievocazione anche per chi non abbia neppure un eco della memoria storica dei fatti e dei personaggi coinvolti, e a cui manchi quella possibilità rievocativa che costituisce il meccanismo del ricordo. La tensione sociale degli eventi diventa, nel racconto delle vicende processuali occorse a Enzo Tortora, il nesso di discussione delle anomalie del metodo giudiziario italiano, e delle derive cui esso può portare inesorabilmente, quasi con l’inerzia delle forze brute della natura. Non è una ricostruzione storica di un’epoca passata; non ha il valore e il significato della narrazione retrospettiva, né tantomeno dell’analisi tecnica professionale di regole procedurali penali ormai sorpassate e morte. La vividezza del percorso narrativo, che ha un climax interno crescente e trascinante verso l’abisso della irragionevolezza, è un effetto naturale del metodo espositivo di Della Valle, che costruisce la tensione dell’inevitabile per accumulo di eventi, errori, bizzarrie e franche follie, utilizzando un criterio argomentativo proprio del repertorio dell’avvocato, utile a conferire alla trama il carattere della oggettività e della verità. Non si è mai sfiorati, leggendo, dal dubbio della invenzione narrativa e neppure intaccati dalla consapevolezza che colui che sta raccontando lo fa solo in quanto schierato dalla parte del protagonista. Forse perché pervade ogni parola la consapevolezza inconscia che qui il protagonista non è tanto Tortora, e nemmeno l’autore che lo ha difeso come giovane avvocato, ma la brutalità ottusa di un sistema che ha permesso, ed anzi agevolato, che accadesse ciò che è accaduto.
Da questa considerazione nasce la ragione della commemorazione e del ricordo, dalla necessità di perpetuare nel tempo la consapevolezza della perversione nascosta nei meccanismi che regolano la nostra vita e a cui ci affidiamo come strumenti di salvaguardia della ragionevolezza del nostro vivere sociale.
È necessaria la capacità di attenzione critica verso ciò che è ovvio, come pure la persistenza, in ciascuno, della consapevolezza della strumentalità di ogni sistema di organizzazione sociale, della sua fallibilità e della sua incompletezza, le quali generano l’ esigenza che questa attenzione critica della ragione sia perpetuata nelle generazioni come antidoto alla inerzia del pensiero ed all’abbandono alla necessità irragionevole delle cose umane, solo per la loro inevitabilità, autorevolezza o ricorsività, affinché queste caratteristiche non siano scambiate mai per intima esattezza, necessità infallibile e insuperabile perfezione.
La ricostruzione spietata, che l’avvocato Della Valle ci obbliga a ripercorre, dei vari passaggi del procedimento penale a carico di Tortora, l’esposizione diretta ed oggettiva delle indagini, dei risultati di essa, delle contraddizioni, degli squilibri valutativi, ma soprattutto della ostinazione cieca sul binario intrapreso dalla accusa, non permette al lettore alcuna distrazione ed ammorbidimento della sensazione crescente di sfocamento logico nel quale viene calato.
Troppo facile sarebbe la narrazione romanzata, e troppo agevole la individuazione di complotti e doli dietro le pratiche (incomprensibili) della macchina giudiziaria. Per il lettore sarebbe il modo di eludere l’incongruenza strutturale e di sistema, e trovare storture personali in un meccanismo perfetto e ragionevole di per sé.
L’asfissia, in ogni pagina nasce invece dalla consapevolezza che l’errore è padre di ogni errore successivo, ed esso è frutto della deriva che il procedimento penale autoalimenta, fondandosi su di una esasperazione di principi interpretativi e scorciatoie motivazionali mascherate con l’autorevolezza dei Giudici e la ricorsività di canoni considerati frutto di millenni di esperienza intelligente.
Lo srotolamento impietoso dei dati procedurali, il racconto delle difficoltà enormi della difesa nel far fronte alla accusa, la stupidità inconcepibile di ciò che ci appare chiaro fin da subito deve, correttamente deve, sfidare il lettore sempre e periodicamente, perché non si offuschi mai in ognuno di noi l’orrore della aberrazione e la capacità di controllo critico.
Il nome e la storia di Enzo Tortora ci dicono ancora oggi la mostruosità che si nasconde nel sonno della ragione e deve insegnare il coraggio di comprendere che il vizio più grave di un sistema giuridico non è la incapacità di individuare una colpa certa, ma la attitudine a cercarla necessariamente, quasi che la sua assenza fosse il sintomo di un fallimento inaccettabile per la società. read more

I pericoli di una visione che subordina l’individuo

I pericoli di una visione che subordina l’individuo

Lunedì sedici ottobre, in occasione delle serate dedicate ai classici del pensiero liberale e libertario, abbiamo presentato “Errori e miserie dello storicismo”, di Carl Menger. Erano con noi Raimondo Cubeddu, Senior fellow dell’Istituto Bruno Leoni, Enzo di Nuoscio, professore di Filosofia della scienza presso l’Università del Molise e Marco Menon, borsista presso l’Università della Svizzera italiana. L’edizione presentata, che si avvale di un’introduzione curata proprio da Raimondo Cubeddu e Marco Menon (introduzione articolata al punto da costituire un saggio vero e proprio), ci presenta quelli che potrebbero essere definiti come i punti salienti della celeberrima controversia metodologica – Methodenstreit – che divise e impegnò Carl Menger da un lato e Gustav Schmoller e tutta la corrente della “Scuola storica tedesca” da un altro. Questo confronto, che assunse toni anche molto aspri, si sviluppò a partire dalle considerazioni contenute nel libro di Carl Menger, fondatore e principale esponente della prima generazione della “Scuola austriaca di economia e scienze sociali”, pubblicato nel 1883, vale a dire “Sul metodo delle scienze sociali”. Alle posizioni fortemente critiche articolate nel libro di Menger nei confronti dell’impostazione fatta propria da quella che stava divenendo la visione preponderante nel dibattito intellettuale, rispose il principale e più autorevole esponente di essa, quel Gustav von Schmoller che utilizzò tutta il suo prestigio e la sua autorità accademica per definire una replica che, nelle sue intenzioni, avrebbe dovuto lasciare Menger disarmato e sconfitto. Menger, invece, approntò una controreplica che, oltre a ribadire con puntiglio e rinnovati argomenti, le posizioni contenute nell’opera, citata, del 1883, rileva analiticamente le inesattezze, le tesi infondate, l’impianto metodologicamente erroneo sia della Scuola storica tedesca che dei rilievi di Schmoller. Questa controreplica, datata, 1884 ed intitolata “Gli errori dello storicismo nella scienza economica tedesca”, di fatto costituì una risposta estremamente efficace, che, sebbene non mostrasse di lesinare al suo interno toni duri ed accenti aspri, pure non mancò di focalizzarsi sullo specifico, per ribadire le tesi proprie di Menger e per criticare con rinnovato vigore i suoi avversari nella disputa. La controrisposta di Gustav Schmoller e di tutto il gruppo che si riconosceva nel paradigma storicista si concretò in una stizzita missiva indirizzata proprio a Menger e  presentata sull’organo ufficiale della Scuola Storica, lettera in cui si dava notizia di aver rimandato il libro al mittente senza nemmeno averlo letto ed accompagnando questo gesto con inviti a cessare la schermaglia intellettuale. Questa scelta da parte di Schmoller potrebbe essere interpretata come una evidente incapacità di contrastare ulteriormente le motivazioni di Menger ; quel che è certo è che un atteggiamento del genere non depone a favore di colui che lo compie, sembrando più un abbandono del campo che altro. A prescindere dalle valutazioni sul valore da dare alle rispettive posizioni ed al giudizio da fornire in merito, è opportuno sapere che Menger non smise di articolare le sue posizioni negli anni successivi, con profili dedicati ai suoi avversari e agli sviluppi delle scienze sociali primariamente in Germania. Ciò che ne ricevette fu l’ostilità, annunciata e resa fattiva dagli esponenti dello Storicismo, in tutte le aule accademiche tedesche alle idee della nascente Scuola Austriaca di economia e scienze sociali, cosa che, tuttavia, non impedì a Menger di rivestire il ruolo di formidabile caposcuola di una tradizione di ricerca ancora viva, feconda ed operante. Le idee della Scuola Austriaca, infatti, si propagarono e seppero conquistare menti e proseliti ovunque nel mondo, attraverso generazioni di studiosi oltre che mediante formidabili rappresentanti. Potrebbe risultare abbastanza singolare quando non esagerato che due fronti contrapposti si opponessero con tale veemenza intorno a quella che, a prima vista, sembrerebbe una contorta polemica metodologica di tipo accademico. Ebbene, l’inoppugnabile difficoltà nella ricostruzione delle posizioni e, soprattutto, la non immediata derivazione delle conseguenze teoriche da una disputa come queste potrebbe effettivamente indurre ad una mancata comprensione dell’effettivo valore della posta in gioco. Il fatto è che in questa battaglia si sono affrontate due opposte visioni delle scienze sociali, del loro status e del loro significato, oltre che del fondamento di ciascuna e, insieme, di tutte. Che questo scontro sia stato molto importante è desumibile anche dalla storia delle conseguenze come pure dal novero dei successivi contributi che da questo scontro hanno preso spunto per fornire un punto di vista decisivo su fattori centrali delle scienze sociali. Autori del calibro di Max Weber,Ludwig von Mises, F.A. von Hayek e Karl Popper, per citarne solo alcuni, si sono affaticati su questa problematica e sulle sue molteplici implicanze. La disputa, inoltre, parla della stessa importanza da attribuire ad una metodologia di ricerca, ad una “via da seguire”, per restare al significato etimologico, tanto necessaria quanto poco tenuta in conto. Se dalla disputa, come ha saputo cogliere con acutezza Sergio Ricossa nella sua Premessa all’edizione italiana del 1991 e ripresa in calce anche nell’edizione presentata, sapremo desumere non tanto l’esclusività di una prospettiva a detrimento di un’altra, ma la compenetrazione nel rispetto dei rispettivi ruoli e delle rispettive aree di influenza, avremo fatto in modo che essa possa averci insegnato qualcosa. In caso contrario, avremmo assistito ad una logomachia sterile, come peraltro troppo spesso capita di essere spettatori. Ed allo stesso modo, ci auguriamo che nel conflitto troppo spesso riproposto tra individuale e collettivo, le ragioni del primo non siano mai soffocate, perchè questo significherebbe l’arretramento di istanze che una visione liberale non può mai dimenticare, ossia quelle del singolo. read more

Dialoghi sul clima. Tra emergenza e conoscenza

Dialoghi sul clima. Tra emergenza e conoscenza

Il titolo è un invito al dialogo, rivolto a quei catastrofisti che pretendono di rappresentare il verbo della verità assoluta, dileggiando gli obiettori che essi chiamano negazionisti, deturpando e svilendo il termine usato per chi nega la shoah. Si tratta piuttosto di confrontare numeri e fatti e non ideologie preconcette.
Il libro è scritto a 40 mani … infatti gli autori sono 20 insigni scienziati che espongono valutazioni e precisazioni sui numeri sbandierati da chi prefigura imminenti catastrofi del nostro pianeta (n.d.r.: che con ogni probabilità sopravviverà ancora per qualche centinaio di milioni di anni).
Che il clima sia cambiato non è oggetto di discussione nè di negazione.
Il libro offre argomentazioni che sono più ampie della semplicistica sintesi che ha come bandiera la famigerata, e ormai inflazionata, Anidride Carbonica, detta anche CO2 che fa più figo e “scientificoso”.
L’obiettivo è quello di condividere l’essenza dei numeri misurati, per rimanere alla larga da interpretazioni arbitrarie o preconcette.
Ad esempio, il capitolo del Prof. Mario Giaccio offre un esempio dimensionale di uno dei fenomeni osservati: il Professore non nega le GigaTonnellate di anidride carbonica causate dall’uomo (22,3Gt nel 1990; 34,2 Gt nel 2019), ma le mette nel contesto del totale delle GigaTonnellate esistenti in atmosfera (3.000Gt) e negli oceani (3.600Gt).
Il tema meriterebbe freddezza e obiettività, o almeno impegno a mantenere l’una e l’altra. A titolo esemplificativo, si leggono prese di posizione orientate più al discredito degli obiettori o alle percentuali di “consenso” invece che al contenuto dei dati numerici; semmai alla loro rappresentazione o interpretazione.
Ferdinando Cotugno (giornalista di “Domani”) scrive di: Pseudoscienziati e media – La galassia dei negazionisti; la nuova frontiera del populismo climatico si alimenta di personaggi screditati dalla comunità scientifica. Il rischio è che questo atteggiamento si saldi con gli interessi di chi vorrebbe mantenere lo status quo …
Che insiste sull’uso inopportuno di negazionismo, mettendo in dubbio il valore degli autori, definiti arbitrariamente “pseudoscienziati”. read more

Un’idea ampia di giustizia

Un’idea ampia di giustizia

Lunedì due ottobre abbiamo presentato, in occasione delle serate dedicate ai classici del pensiero liberale e libertario, “L’idea di giustizia”, di Amartya Sen. Erano con noi Stefano Zamagni, professore di Economia politica presso l’Università di Bologna, Armando Massarenti, filosofo ed epistemologo e Corrado Ocone, filosofo. La figura e l’opera di questo studioso, che ha operato una sintesi tra i suoi molteplici interessi e che ha dato importanti , contributi in molti campi, hanno rappresentato e continuano a rappresentare, essendo Sen ancora vivente, una serie di significati che si sono dimostrati rilevanti nel dibattito intellettuale dell’epoca della globalizzazione. Sen, indiano del Bengala, si è formato principalmente nell’accademia anglosassone ed ha completato il suo prestigioso cursus honorum presso le più importanti istituzioni universitarie del mondo, mantenendo a lungo un prestigio ed un ascendente incontestabili. Questo prestigio è stato accresciuto dal conferimento, nel 1998, del Premio Nobel per l’Economia, sebbene questo riconoscimento non abbia certo rappresentato, per Sen, un punto di arrivo. Si può affermare, con una certa qual fondatezza, che Sen abbia sempre praticato una ricerca inesausta di soluzioni, di analisi, di riflessioni e che il suo percorso continui a mostrare il suo interesse per chiunque voglia misurarsi su tematiche di non certo facile compimento. Un uomo a cavallo di varie culture, ma proiettato verso il mondo, uno studioso che parte dall’economia per inserire al suo interno le scienze sociali e, soprattutto, la filosofia. Un intellettuale che non ha voluto, nella sua parabola, accontentarsi, ma che ha cercato di portare all’interno la ricchezza multiforme del suo paese di origine, così intriso di contrasti, così pieno di strabilianti diversità, così bisognoso di giustizia equa. L’India è nei suoi libri, nei suoi ricordi, nelle sue idee, come un basso continuo che innerva di suoni peculiari ogni lato delle sue posizioni e delle sue teorie. Si può, ragionevolmente, tentare di dire che la produzione di Amartya Sen sorge da istanze, problematiche e conflitti interni al subcontinente indiano, che poi si nutra della formazione accademica avute presso Cambridge, Londra, Oxford e Harvard e che si orienti, infine, verso il mondo. Sorretta da una preoccupazione eminentemente filosofica, quella di una giustizia che sia più equa effettivamente, e non solo teoricamente. Questo sostrato ha fatto da stella polare per l’economista anglo-indiano, ponendosi come la guida rinvenibile nei suoi scritti. Una giustizia che sia più equa deve, allora,nella visione di Sen avvicinare fino a far coincidere la libertà di scelta, inteso come necessario libero arbitrio, con la libertà di azione, o facoltà effettiva di compiere un determinato atto per ottenere un determinato fine. In quest’ottica, ed il libro presentato, in questo senso, è molto esplicito, per Sen la giustizia, come pure la libertà non possono essere lasciate a se stesse, ma vanno, piuttosto, contemperate proprio in ragione della continua, concreta ed effettiva presenza di esiti riprovevoli o  lontani dalla soglia di benessere. Questo processo di adattamento, di aggiustamento, per meglio dire, va fatto tenendo conto non tanto di astrattezze, quanto delle reali condizioni di vita. Sen, allora, si fa promotore di un auspicio, ossia che le condizioni di maggiore giustizia siano ampliate e potenziate da un richiamo diretto alle istanze del bene comune, alle ragioni di tutti piuttosto che al ricorso alla logica dei pochi. Questo richiamo, secondo Sen, contribuirebbe anche alla salute delle democrazie, in quanto, dal suo punto di vista, è proprio dalle disuguaglianze etiche ed economiche che vengono i principali pericoli per esse. Sen auspica, pertanto, un progetto che vigili sugli aumenti delle differenze e che si ponga come argine al predominio dell’interesse privato e del tecnicismo elitista. Ben si vede come non siamo di fronte ad un pensatore che lascia indifferenti. Le sue posizioni, suffragate da una vasta erudizione e da alcune immagini o metafore capaci di colpire il lettore per la loro forza retorica, si pongono di fronte ai suoi contemporanei ponendo degli interrogativi e provando a dare una serie di soluzioni, consapevole che da esse non si può scappare né esse possono essere ignorate. Leggere queste pagine non è sempre un esercizio agevole o consolatorio, né esse sono portatrici di facili o superficiali messaggi. Esse sono il frutto elaborato e maturo di un lungo lavoro, nato da problemi sentiti personalmente come impellenti, problemi che attraversano le nostre società, le nostre democrazie, le nostre economie. Ma che possono avere un significato profondo anche per paesi di recente industrializzazione, o provenienti da differenti percorsi nello scacchiere globale. Sen non ha dimenticato le sue radici, che sono quelle di una terra dalla cultura millenaria, così come non smette mai di vestire le sue opere di raffinate forme occidentali, ma la sua cifra, la sostanza delle sue posizioni va individuata in una posizione etica a premessa di tutto : quell’idea di giustizia più stratificata con la quale non ha esitato a polemizzare anche con l’amico John Rawls. read more