L’ingiusta detenzione come possibilità concreta

Jonella Ligresti, Edgardo Mauricio Affé, Antonio P., Diego Olivieri, Pietro Paolo Melis, Paolo Baraldo, Ciccio Addeo, Angelo Massaro e Giuseppe Gulotta, come una elencazione di quadri di una esposizione. Quadri tutti riuniti in una mostra sotto il titolo di “Aberrazione del diritto e del processo”.


La costruzione dell’opera di Stefano Zurlo “Il libro nero delle ingiuste detenzioni” è riassumibile nel criterio della enunciazione successiva di episodi che hanno in comune, ognuno in maniera diversa, la irragionevolezza “mostruosa” del processo come macchina di applicazione del diritto.


Lo schema narrativo è scarno, diretto, mai mediato dalla meditazione postuma sugli eventi, mai preceduto da una costruzione di pensiero che giustifichi le scelte narrative e teorizzi gli effetti di ogni singola vicenda.
C’è qualcosa di terribile nel climax creato dalla pura narrazione di fatti senza alcuna premessa, senza alcun commento, senza alcuna conclusione. La semplice descrizione di esperienze personali terribili, incomprensibili nella loro follia logica e nella mancanza di ragionevolezza anche di senso comune, ci pone di fronte alla irrimediabilità quasi banale del male, della tragedia, del deragliamento di una vita.


E lo fa, ed in ciò sta la brutalità letteraria del criterio narrativo scelto da Zurlo, senza darci la via di fuga fornita dalla contestualizzazione in un insieme di fatti e situazioni che non ci appartengono e non ci possono appartenere; senza illuderci mai sulla loro irripetibilità, e sulla inestensibilità a casi di vita che ci possano riguardare e che siano imparentati con la nostra storia personale e le nostre possibilità future.


L’elenco delle storie che il libro narra in successione continua, e senza interruzioni, crea nel lettore, via via che si prosegue nella narrazione, l’asfissia mentale della consapevolezza istintiva che niente ci preserva da quella stessa insensatezza drammatica; quella che siamo sempre disposti a compatire nella vita degli altri, protetti dallo scudo mentale della alterità, il cui effetto possiamo istantaneamente far cessare solo interrompendo la lettura.


Credo che il pregio, e forse lo scopo, primo del libro di Zurlo stia esattamente in questa capacità ipnotica di sfidare la nostra empatia di genere suoi dolori altrui, per insinuare nel lettore, subdola e trasversale, la consapevolezza di poter essere egli protagonista di quelle stesse abnormità, di quegli stessi errori, di quelle stesse occasioni terribili della vita.


La stabilità delle nostre relazioni sociali, e degli schemi organizzati nei quali viviamo, e nei quali ci nascondiamo, poggia sull’affidamento istintivo (in realtà indotto, ma sarebbe lungo ed improprio trattarne qui, come non lo è stato nel libro di Zurlo) nella interna logicità e oggettiva affidabilità di strutture, tra le quali quella della giustizia e del diritto, che la preservano e garantiscono. Cosa ne sarebbe, sembra insinuarci Zurlo, se cominciassimo a pensare che il buon diritto, e la sua applicazione nel processo, è solo l’effetto della disponibilità umana di ciascun Giudice che per caso ci tocca per quel principio di terzietà che da criterio di garanzia, ci mostra, in quelle storie, la faccia della casualità maligna e fortuita della vita.


La perversione delle regole che pensiamo oggettive e indiscutibilmente applicate in ogni caso sottoposto al vaglio del diritto e del processo, unita alla imponderabilità, spesso sciatta, dei criteri che ciascun soggetto investito del potere di decidere sulle nostre vite è legittimato a utilizzare, ci sgomenta all’improvviso.


É questo un effetto benedetto e non comune, o comunemente frequentato, del libro di Zurlo; il seme della riflessione, non teorizzata od imposta per argomenti, ma puramente assorbita attraverso il potere descrittivo della realtà, sulle anomalie sotterranee dell’esercizio del potere giudiziario; sulle insidie e le inerzie che esso nasconde e sulle prassi incomprensibili, oscure, e spesso assolutamente irragionevoli, attraverso le quali il diritto viene perpetuato dalla liturgia processuale dei giudizi.


L’enigma, ignoto ai più, del diritto applicato nel processo, alimentato da una opacità rituale difesa dalla casta degli addetti ai lavori, si mostra così improvvisamente come banalità di criteri ed arbitrio di prassi, se accostato agli effetti che a volte, forse più spesso di quanto ci piace credere, ne conseguono e che non percepiamo mai, perché polverizzati nelle disgrazie personali a noi estranee.


È non solo lecito, ma doveroso interrogarsi su quale diritto e quale processo attende ciascuno di noi nella eventualità, non irrealizzabile, che ne diveniamo parte passiva. È uno sforzo mentale di spietata analisi della realtà, senza la quale non sarà mai possibile uscire dalla mitologia sociale della certezza del diritto e della protezione in base a principi che esso ci accorda. Quasi che la certezza e i principi fossero oggetti ontologici capaci di operare con volontà propria sempre garantita, e non piuttosto istruzioni per utensili logici che affidiamo a qualcuno al fine di regolare le nostre vite.

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