Lunedì primo maggio, in occasione delle serate dedicate ai classici del pensiero liberale e contemporaneo, abbiamo presentato i “Princìpi di politica” di Benjamin Constant. Erano con noi Biancamaria Fontana, professore emerito di Storia del pensiero politico presso l’Università di Losanna, Giovanni Paoletti, professore di Storia della filosofia presso l’Università di Pisa e Giuseppe Sciara, professore di Storia delle dottrine politiche presso l’Università di Bologna.
Di Benjamin Constant avevamo già presentato e recensito “Lo spirito di conquista ed usurpazione”, il lucido ed illuminante saggio del 1814 sulla guerra, sulla situazione politica alla vigilia del riassetto post napoleonico e sulle premonizioni, in gran parte avveratisi, su un’età liberale a venire. Questo scritto, invece, rappresenta qualcosa di molto differente.
Si tratta, infatti, del materiale, raccolto fin dalla fine della fase più estrema della Rivoluzione Francese, quella, per intenderci, segnata dalle follie omicide del Terrore, e quindi dal periodo che va dalle esperienze termidoriane fino all’ascesa al potere di Napoleone Bonaparte all’inizio del XIX secolo.
E questi “Principi di politica”, datati 1806 (da non confondere, dunque, con i “Principi di politica” del 1815, un testo toto coelo differente), sono la risultante di tutta la complessa formazione europea di Constant, della sua relazione con il circolo di Coppet (il cenacolo intellettuale che radunò, fra gli altri l’ex ministro delle finanze Necker, Sismondi e, soprattutto, madame Germaine de Staël, legata al nostro da una complessa quanto travagliata vicenda), della prima fase della Rivoluzione Francese, del tragico periodo del Terrore, della fase termidoriana e degli avvenimenti che portarono al consolato ed alla dittatura.
Quest’opera non fu pubblicata da Constant, ma può essere giudicata, in senso puramente esteriore, secondo due fondamentali aspetti : la capacità di Constant di concepire e sviluppare una grande opera articolata e, cosa che fu evidente nella pratica compositiva successiva, la possibilità di attingere a questo grande serbatoio di idee e riflessioni per dare sostanza alle sue composizioni degli anni a venire.
E sebbene questa non si configuri come la sua unica grande fatica (ricordiamo i suoi componimenti sulla costituzione repubblicana, sulla religione e, in particolare, la sua produzione letteraria, diaristica ed epistolare), precisare di essa ambiti, scopi e istanze rappresenta sicuramente un valore indiscutibile per la definizione del clima intellettuale, politico e, più autenticamente liberale di questo scorcio importantissimo della storia europea Passando all’analisi dell’opera, si nota come essa sia divisa tra una sezione, dove si denuncia e si critica quelle posizioni che, a parere dell’Autore, avevano condotto il Paese (si intende la Francia, ma potremmo tranquillamente coinvolgere la civiltà europea) alla deriva del Terrore e della dittatura. Posizioni che potremmo condensare nell’estensione dell’autorità sociale ad ambiti impropri (si legga, gli ambiti dei diritti individuali) così come definita e teorizzata da Rousseau, principalmente, e da Hobbes.
Queste posizioni vengono spiegate con acume e con pari acume vengono contestate, anche per le implicanze che esse hanno dimostrato di avere nello stesso corso storico (l’esondazione di leggi, gli arbìtri, i violenti passaggi di potere, gli abusi sulla proprietà e sul reddito, le guerre, i condizionamenti di ogni tipo operati dalle autorità politiche e governative sulle sfere individuali). L’opera, che va sempre ricordato, non ha carattere sistematico, ma si presenta piuttosto come un grande cantiere di lavoro, consta anche di un’altra parte, altrettanto importante, ossia quella che potremmo chiamare come il contributo positivo fornito da Constant.
Ci riferiamo ai princìpi che egli oppone alle costruzioni intellettuali fallaci e pericolose cui facevamo riferimento, in particolare la limitazione dell’autorità collettiva sul singolo, un’analisi del concetto di maggioranza, l’importanza dei diritti individuali (libertà di pensiero e libertà religiosa su tutti, ma anche diritto alla piena proprietà, al godimento dell’autonomia economica), le garanzie giudiziarie, la sovranità della legge, una necessaria cornice del diritto, un habitus verso i doveri che vengono dalla convivenza.
Ad onor del vero, è bene sottolineare come anche la riflessione intorno al clima intellettuale che ha portato agli esiti nefasti da lui stesso visti di persona e nei quali fu anche coinvolto ai massimi livelli rappresenta un contributo molto importante fra le posizioni che emergono da questo travagliato periodo e si configura come un momento ineludibile, in negativo, per meglio tracciare una teoria liberale della società, del governo, della convivenza, della rappresentatività.
Un ultimo accenno merita, infine, il capitolo – ed in genere tutte le suggestioni contenute sia nelle posizioni espresse in precedenza da Constant che dal gruppo di Coppet – dedicato all’autorità sociale presso gli Antichi. Sappiamo che tutto l’Illuminismo è stato pervaso, a vario titolo, dal richiamo alla classicità, greca, ma soprattutto romana e sappiamo anche che Constant deve parte della sua fama alla lezione del 1819 in cui confronta la concezione della libertà degli Antichi con quella dei Moderni; ora, queste posizioni sono anticipate anche da questa sezione dell’opera e rappresentano un grande interesse, che caratterizzerà la fortuna dei Constant in seguito.
Questo autore è davvero un classico, capace di scrivere con limpida chiarezza le molte idee che popolano i suoi scritti, capace di presentire molti degli sviluppi delle epoche che lo seguiranno e in grado di entrare nel novero dei padri nobili del liberalismo, ma anche del pensiero politico.