Libere annotazioni sul libro “Manifesto del libero pensiero”.
Ecco: Paola Mastrocola e Luca Ricolfi ci hanno stimolato tanti pensieri. Libero pensiero, come gli autori hanno affermato nel loro “Manifesto dei LiberoParolisti”: 26 fulminanti dichiarazioni da mandare a memoria, alla fine del loro libro. Libertà di affrancamento dall’appiattimento linguistico “politicamente corretto”: àtono, privo di espressione, lagnosa filastrocca di un galateo fariseo da sepolcri imbiancati, tiritera globale senza un lampo d’ironia (non parliamo poi di sarcasmo): condimento di concetti intelligenti. E non c’è dialogo, che ha lasciato il posto alla reprimenda della parola in quanto tale: “Anatema: hai detto una parola scorretta”, come ad esempio “nero” o “cieco” o “handicappato” o “vecchio” o “lesbica”, per far posto a “di colore” o “non vedente” o “anziano” o un elenco di lettere quali LGBTQ… eccetera.
L’Unione Italiana Ciechi (https://www.uiciechi.it/) se ne infischia della locuzione “politicamente corretta” e si mantiene la parola “ciechi”; ma qualcuno pur di non dire “stitico” direbbe “non defecante”, stuprando così la nostra lingua: la lingua di Dante Alighieri, che pure ci ha regalato un libero “ed elli avea del cul fatto trombetta”.
Nelle recensioni c’è chi, con la coda di paglia, ha trovato nel libro occasione per criticare, scrivendo: “… secondo loro, il politicamente corretto è diventato l’ideologia dell’establishment, con l’equazione sinistra=establishment …”. Il recensore dice che “non è convinto che il nemico principale sia la (pur dolciastra) retorica buonista e il (pur intimidatorio) politically correct “.
Noi invece sì. Si stigmatizza nel libro anche il famigerato “asterisco” in fondo alla parola per farla “neutra”: né maschile né femminile; per la “parità di genere”… Confusione fra grammatica e sesso. Così la vite, che è maschio, ha un nome grammaticalmente femminile; il dado, che è femmina, ha un nome grammaticalmente maschile. “La” vite si infila “nel” dado, a costituire un insieme maschio-femmina che si chiama “bullone”. Scrisse il Galilei: “i nomi e gli attributi si devono accomodare all’essenza delle cose, e non l’essenza a i nomi; perché prima furon le cose, e poi i nomi”.
Al diavolo i maestrini e le maestrine con le loro matite rosse e blu intinte in un conformismo di maniera e anche gli opinionisti autoproclamatisi custodi del parlare corretto: personaggi da “reality” senz’arte né parte, con nomi maschili e cognomi provocatori femminili. I famigerati cosiddetti “social” ci mettono del loro, sostituendo le parole (ma guarda un po’: fine del dialogo) con delle moderne versioni dei geroglifici chiamate emoticon: faccine con sorrisi e lacrime e cuoricini e mani plaudenti, e nulla più.
Gli autori avvertono che anche l’arte soggiace alla dittatura … e per loro fortuna non hanno fatto in tempo (2023) a registrare che gli americani, con la loro “cultura (in ritardo di secoli) della cancellazione”, hanno scoperto scandalizzati la nudità degli attributi maschili del David di Michelangelo; pensa un po’ quando si accorgeranno della nudità dell’Olympia di Manet, con tanto di serva (una “negretta”) che le porge fiori. Ma sì: cancelleranno l’uno e l’altra. Censurando e cancellando, chissà se arriveremo al “tacet” come nell’episodio del concerto nel film “Dove vai in vacanza ?” di Alberto Sordi. Staremo zitti, nella speranza che i talk-show facciano altrettanto… C’è poi il linguaggio di riverenza (anche immeritata) che si piega all’accondiscendenza: “magari è meglio che non lo dica, per non rischiare di irritare la suscettibilità altrui” o, peggio, auto-censura per evitare il giudizio altrui pensando che conti chissacché; dice Dante: “cred’io ch’ei credette ch’io credesse”… Così non va, dice il libro; dobbiamo ignorare questa censura sussiegosa che sfocia nella ridicola follia di neologismi contorti; chissenefrega di quel che dicono.
Ci domandiamo come verrebbe condannato il Marchese Piero Garbagli; autore di un’intemerata sui graffitari, pregò Dio di dannarli tra gli spasimi trasformando in veleno la vernice e in vipera il pennello e concluse: “… Ma uno vorrei che salvasse fra mille: chi ha scritto in via Trieste: Irene, la topa ti fa scintille.” Quel “topa” è tutto. Massima sintesi libera, che più sintesi non si può. Uno sberleffo ai ridicoli ghirigori linguistici e agli astrusi neologismi per girare intorno alle cose. Il Marchese sarebbe condannato alla gogna mediatica per scorrettezza politica, con staffilate in talk show e dibattiti sul nulla: sessismo, maschilismo, omofobìa … (che poi, ditelo ai cacasenno del “politically correct” che “fobia” in greco significa “paura”, e non odio).
Ecco allora il Manifesto del libero pensiero. Libero. Con scintille.