Lunedì 17 aprile, nell’ambito delle serate dedicate ai classici del pensiero liberale e libertario, abbiamo presentato “La scelta federale”, di Gordon Tullock.
Erano con noi Andrea Giovanardi, professore di diritto tributario presso l’Università di Trento, Stefano Moroni, professore di Diritto ed etica nella pianificazione del territorio presso Il Politecnico di Milano, Paolo Pamini, professore di Fiscalità presso Il Politecnico di Zurigo e Roberto Brazzale, imprenditore. Il libro, la cui relativamente ridotta mole è inversamente proporzionale alla messe dei temi trattati e, soprattutto, all’interesse delle conclusioni cui giunge, si propone nientemeno, come recita il sottotitolo, di avanzare “argomenti e proposte per una nuova organizzazione dello Stato”.
Compito, come si intuisce, non certo semplice, ma che l’Autore svolge con brillantezza e con uno stile piano, chiaro, intelligibile. Una prosa accessibile anche ai non addetti ai lavori, cioè al vasto pubblico dei non economisti, che devono, troppo spesso, subire, oltre che a elaborazioni impattanti sulla propria vita senza nemmeno averne contezza, ma anche accettarne le risultanze nascoste sotto velami di fumisterie linguistiche, lessicali e terminologiche.
Crediamo non sia superfluo riferire seppur sommariamente di chi stiamo parlando, in quanto non a tutti è, legittimamente, sia chiaro, nota la figura e l’opera di Gordon Tullock. Ebbene, siamo di fronte ad un economista e studioso che, insieme al più famoso collega e co-autore del libro del 1962 “Il calcolo del consenso”, ossia James M. Buchanan, ha fondato una scuola economica, la “Scuola della Virginia”, o “Scuola della Public Choice”, un indirizzo ed un approccio fra i più rilevanti della seconda metà del XX secolo, gratificato dal Nobel al suo collega Buchanan, ma vivo ed operante negli atenei e nei centri di studi di tutto il mondo.
Non è qui il caso né il luogo per un riassunto dell’enorme contributo dato da questa multiforme linea di ricerca alla disciplina economica e delle scienze sociali. Ci siamo già occupati di un altro classico della “Public Choice”, ossia il libro di Buchanan su “I limiti della libertà” ed anche ad esso rimandiamo ed alla sintesi che ne era stata data. Piuttosto, vogliamo provare a fornire un accenno ai molti punti che costituiscono questo contributo di Gordon Tullock e lo faremo iniziando con una delle tesi più importanti in esso contenuta, ossia la necessità di “federalizzare” ogni livello di potere e di gestione delle scelte.
Il libro si intitola non a caso “La scelta federale” e rappresenta l’esplicitazione e la dimostrazione di come proprio la scelta di “federalizzare”, ossia una tutela di tutti i piani sociali e istituzionali in senso diametralmente opposto alla preponderante e indiscussa opzione “centralizzante”, sia per il singolo, per l’individuo, per le persone la più adeguata fra le scelte offerte finora dal campionario della storia delle soluzioni al dilemma della convivenza. Tullock chiede un’inversione completa : dalla centralizzazione ad uno spostamento verso unità di governo sempre più piccole, un auspicio fatto in virtù di accurate ricerche e approfondite analisi, non certo per una volontà pianificatrice dall’alto.
In tal senso, è altrettanto desiderabile e preferibile un mix di governi, ossia una simultanea presenza di più livelli di governo, tutti però rispondenti alla primaria, ineludibile e fondamentale delle condizioni, ossia la rispondenza alla volontà di coloro che li scelgono. Sembra una precondizione ovvia e scontata, ma non lo è, come l’esperienza quotidiana ci insegna e come la realtà di miliardi di governati dimostra ogni giorno.
Un’organizzazione decisionale che risponde ai desideri di chi la sceglie e che lo fa in maniera efficiente è più facilmente rinvenibile in forme quanto più decentrate e locali, vicine e prossime quanto più possibile a chi sceglie e chi fruisce di quelli che, non dovrebbe mai essere dimenticato, sono servizi alle persone, non certo strumenti per far funzionare macchine burocratiche, amministrative o politiche. La stessa funzionalità governativa andrebbe frazionata, divisa, parcellizzata, per essere più controllabile, responsabile e, in ultima analisi, rispondere meglio al senso di cui sopra, ossia l’unico che abbia una plausibilità, il singolo.
Con grande lungimiranza, l’Autore, ravvisando una tendenza operante anche nel suo paese, ossia gli Stati Uniti, mette in guardia di fronte ai tentativi continui di Stati e super-Stati, in particolare l’Unione europea, di coartare la decentralizzazione, le federalizzazione, la concorrenza applicata alle aree. Tullock non è indulgente nemmeno con i cittadini, soprattutto quelli dove imperano maggioranze e grandi corpi governativi e burocratici, e non lo è in quanto vede una scarsa o nulla volontà di rendersi consapevoli delle problematiche di tutta questa situazione, a partire dalla mancanza di informazione.
Chiunque abbia un poco di dimestichezza con il pensiero liberale e con le più interiori pulsioni della nazione americana, avrà riconosciuto, oltre a preoccupazioni fortemente e giustamente sensibili al complesso delle libertà individuali, anche un richiamo alla tradizione ed alle componenti del liberalismo classico, cioè ad una visione che tutela, difende e cerca di propagare i diritti dei singoli di fronte al sistema di istituzioni sovra personali.
Tullock, in particolare, sembra ricordarci una serie di suggestioni che troppo spesso tendiamo a dimenticare : il singolo è primario rispetto ad ogni associazione e sicuramente lo è di fronte ad ogni tipo di governo, che è tenuto a servirlo e non viceversa; più il governo è locale e più sarà a servizio degli individui e, quindi, più attuerà la prospettiva liberale di convivenza; il livello decisionale cui si dovrebbe tendere è quello individuale, cioè quella condizione nella quale sia la maggioranza che la minoranza ricevano uguale dignità e non una disparità di trattamenti; più l’unità amministrativa è piccola e più è efficiente e adattabile, oltre che controllabile dai fruitori; concorrenza e pluralità sono meglio di monopolio e imposizione. Il libro è pervaso, dall’inizio alla fine, da un continuo richiamo alla perfettibilità contro il perfettismo : le istituzione umane, tutte, comprese la scelta federale non sono perfette, ma fallibili.
Questo dovrebbe metterci in guardia dinnanzi alle tentazioni e alla presunzione.
